Missione del blog

Il Biri, il socio più anziano titolare della celebre Agenzia (*), ha l'abitudine, da anni, di annotare i suoi pensieri, le sue osservazioni e gli avvenimenti che gli accadono (anche i meno memorabili) in un taccuino che non mostra a nessuno e del quale è gelosissimo.
Ora, avuto il permesso di visionarlo, l'ho trovato per certi versi interessante (come tutto quello che concerne il Biri) e gli ho chiesto perché non lo pubblicasse in un blog. Impresa disperata: il Biri non sa usare nemmeno il telecomando del televisore, figuriamoci il computer! Impietosito ho deciso di aiutarlo e pertanto ecco qui il blog con le pagine del taccuino del Biri che potrete leggere e commentare ricordando sempre che il sottoscritto non si prende alcuna responsabilità del contenuto essendo il suo contributo solamente quello di una collaborazione tecnica e poco più.


Per saperne di più, leggere il post dal titolo: Ouverture.
R.M.

(*) L'Agenzia di Ascolto e Collaborazione Morale della quale parlerò appronditamente in un prossimo futuro su queste pagine.

Roberto Mulinacci

Il regalo di Babbo Natale

giovedì 23 dicembre 2010

Babbo Natale quest'anno non ha potuto far a meno di risentire (persino lui!) della crisi globale che martorizza mezzo mondo e, a malincuore, ha dovuto fare economia anche nei regali che ogni anno destina a grandi e piccini.
Ecco la lista dei doni che ha riservato ad alcune personalità politiche italiane:

A GIANFRANCO FINI: Una confezione gigante (di quelle che si trovano anche da LINDL) di fondo tinta per rifarsi la faccia (faccia che, dopo la batosta del 14 u.s. gli sta velocemente scomparendo);
Alla moglie di BOCCHINO: Un tom-tom ultimo modello per ritrovare il marito scomparso dalla circolazione e persino dai talk show di Santoro dopo la figuraccia rimediata sempre in quel fatidico giorno;
Alle Signore FINOCCHIARO, BINDI e FACCIO un carnet completo di 40 (Quaranta) buoni ognuno dei quali dà diritto ad un trattamento completo di restyling, piling e maquillage ecologico presso l'Istituto Estetico della Quarta Età (inclusa maschera di fango biologico CACCAMUKKA ad effetto riassodante);
A DI PIETRO: Un vocabolario italiano-cafone e cafone-italiano per permettergli di potersi esprimere in modo almeno parzialmente comprensibile dagli altri;
A BERSANI: Una confezione della "Tombola solitaria". 
Nota del Redattore: Trattasi di una tombola in cui partecipa al gioco un solo giocatore. Il gioco termina quando questi, estraendo ad uno ad uno i numeri della tombola riesce a completare una delle cartelle che ha in dotazione (tutte). A quel punto, dopo aver urlato: "Tombola!", può accennare i primi passi di una danza gitana e gridare "Ho vinto!" senza che nessuno lo possa smentire. La "Tombola solitaria" è stata richiesta a Babbo Natale (tramite letterina inviata in Lapponia) anche da Franceschini, Rutelli, Fassino e la signora Finocchiaro, tutti rinomati per le sonore, incessanti trombature raccattate in ogni competizione in cui si sono presentati specie se opposti al Tiranno d'Arcore.
Buon Natale anche a loro.

IL RIBALTAZZO alias IL POKER (ovvero: se 'un sai giocà, lascia perde...)

giovedì 16 dicembre 2010

Il gioco del poker è ormai di gran moda. E’ stata senza dubbio la grande diffusione di internet che ha contribuito al suo sdoganamento, dato che prima era considerato un gioco d’azzardo, pericoloso, rozzo e assolutamente da evitare da parte degli intellettuali, delle signore perbene e delle persone con una carica pubblica. A differenza della roulette, che in un certo periodo della nostra epoca ha avuto perlomeno dalla sua il fascino di un gioco misterioso ma a modo suo affascinante, popolato da un sottomondo fatto di avventurieri senza scrupoli, banchieri in dissesto, mantenute d’alto bordo, nobili decaduti e viveurs alla ricerca di una ricchezza improvvisa (e immeritata), il poker richiama alla mente solo squallidi retrobottega male illuminati, stretti e pieni di fumo dove intorno ad un minuscolo tavolino si radunano individui appartenenti alla fauna male assortita del sottobosco metropolitano: gangster con pupa al seguito, guappi rampanti, giocatori di professione, commercianti sull’orlo del fallimento e uomini di mezza età alla deriva che cercavano di procurarsi i soldi necessari per tirare avanti per un po’ alla meno peggio.
Il poker era vietatissimo, anche se ovviamente questo non impediva che fosse assai praticato di nascosto (in base al noto principio per il quale per favorire la diffusione di una pratica basta proibirla); la sua clandestinità ha ispirato i romanzi di generazioni di scrittori nordamericani e decine di sceneggiatori dell’epoca d’oro del thriller hollywoodiano che hanno ambientato tra i tavoli di poker innumerevoli sequenze dei loro film noir.
Poi, è arrivato internet e tutto è cambiato: il poker non solo non è più proibito ma al contrario viene continuamente promosso, reclamizzato ed esaltato in tutti i più reconditi siti del web. Sky l’ha promosso addirittura a “sport” (De Coubertin si rivolterà nella tomba) e programma nei suoi canali sportivi le più interessanti partite (perché ovviamente c’è qualcuno al quale interessano) di “Texas Hold’em” (un tipo di poker importato direttamente dagli States.
Le regoli del poker sono assai semplici, almeno quelle basilari. Si tratta di un gioco individuale (ognuno gioca per sé stesso) basato sulla fortuna e sulla faccia tosta (alcuni direbbero, con un fondamento di ragione, sulla psicologia). E’ un gioco di soldi; in due parole: vince chi ha le carte migliori o chi riesce a far credere di averle. Tutto qui.
“Beh” ha pensato Fini (e qui entro in tema) “tutto qui? E’ il gioco che fa per me”.
E ha cominciato a raccontare a destra e a manca di essere in grado di avere la maggioranza necessaria per mandare a casa il Cav. Ha fatto e rifatto i conti, ha sommato e risommato tutti i voti dei suoi seguaci con quelli del partito di Casini, di Bersani, di Diliberto, di Grillo (anche lui ha un partito) e di tutti quelli che professavano una certa antipatia verso il governo del Berlusca e ha concluso dicendo alla stampa, alla TV, in tutte le innumerevoli dirette che l’Annunziata, Fazio, Floris e Santoro, eccitatissimi gli ammannivano: “Il Cav se ne deve andare o lo manderemo via noi. Non ha i numeri per governare perché noi (intendeva: io e i miei nuovi amici) abbiamo la maggioranza del Parlamento”.
Si è rivolto anche direttamente al suo acerrimo nemico: “Ah Berlù, vattene. Risparmiati una brutta figura. Vai via senza aspettare il voto di sfiducia che fai meglio. Ci guadagni di reputazione” e Bocchino rideva, Santoro ridacchiava, Fazio sorrideva, Bersani (impippandosene di doversi alleare con gli ex-fascisti) sghignazzava, pregustando l’immancabile vittoria.
Il problema è che il Berlusca, sarà quel che sarà, ma a poker sa giocare meglio di ogni altro, Fini incluso. E invece di passare è andato a vedere (chi conosce il gioco del poker sa cosa voglio dire, chi non lo conosce se lo faccia spiegare). Ed è bastata questa semplice mossa per mandare all’aria tutto il gioco dei finiani e di consequenza degli antiberlusconiani. Come è stato possibile ? si dirà qualcuno; e anche: quale è stato l’errore di Fini?
Beh, sapete com’è. Il nostro amico non brilla per intelligenza. Va bene bluffare, ma se rilanci senza carte in mano, senza un tris, o almeno una doppia coppia o perlomeno una coppia non puoi far conto che l’altro non venga a vedere cos’hai. E tu non hai niente: non solo non hai una doppia coppia, non solo non hai una misera coppia, ma, benedett’uomo, non hai nemmeno le carte!
E così l’abbiamo visto, col muso lungo, triste e scornacchiato, scampanellare mestamente dall’alto del suo scranno annunciando che la mozione contro il Cav, quella mozione che aveva fatto sua, che aveva caldeggiato, poi minacciato, poi sponsorizzato fino alla nausea, era stata bocciata. Il Ribaltone gli si era sgonfiato tra le dita, non solo non era andato in porto, non era nemmeno mai nato dimostrandosi alla resa dei conti più che un Ribaltone, un ribalticchio, anzi: una ribaltazzo.
La vedo triste per l’immobiliarista di Montecarlo. Da domani aspettiamocelo, finché continuerà ad annoiarci dalla poltrona più alta della Camera (quella che gli ha regalato il Berlusca), ancora più triste, più iroso, più puntiglioso, più antipatico di come è sempre stato (ed è difficile). Non so come si comporterà da ora in avanti, so solo che la prima cosa che farà sarà comprarsi un libro che spieghi bene le regole del gioco del poker. Non sono sicuro che le capirà...

SOGNO O SON DESTO? ovvero: Un incubo di Gargamella

domenica 12 dicembre 2010

Era la notte del 13 Dicembre e Bersani, sdraiato al buio nel proprio letto, non riusciva ad addormentarsi. Erano già le una passate ma strani pensieri gli si agitavano nel cervello rendendogli difficile prender sonno.
Il pover’uomo era ormai arrivato al limite della sopportazione. Ma come? Quando ormai tutto sembrava fatto, quando le cose procedevano a puntino e gli eventi auspicati si verificavano puntualmente come fossero controllati da un orologio, ecco che proprio alla vigilia della mozione di sfiducia preparata appositamente da Fini e Casini per sloggiarlo dalla carica di Premier, l’odiato B., il Dittatore che proprio lui, Bersani, aveva definito negli ultimi tre mesi in ogni dichiarazione, in ogni intervista e in ogni talk show nei quali si era presentato come: finito, esaurito, spacciato, eliminato, cacciato e, insomma, morto e sepolto, si metteva in testa di andare alla conta dei voti in Parlamento. E questo senza tenere in nessun conto quanto lui stesso, la Bindi,  Di Pietro, Fini e Casini gli consigliavano: è tutto previsto, sarai sfiduciato, caro B., fìdati; è inutile votare la sfiducia, rispàrmiati la figuraccia, dimèttiti e chi s’è visto s’è visto.
Quello invece niente: fermo, duro come un sasso: - Se non ho più la maggioranza lo voglio verificare contando i voti – si è messo a dire - non mi fido dei vostri sondaggi – come se non volessimo dimetterlo per il suo bene, pensava Bersani, per non fargli subire una umiliazione; insomma, perché ci fa un po’ pietà.
Ed ecco che accidenti a lui, pensava rigirandosi nel letto Gargamella (il nomignolo gli era stato affibbiato da quella sempliciona della Bindi), giorno dopo giorno, ora dopo ora, prima impercettibilmente, poi lentamente, ma comunque inesorabilmente, le cose sembrava si fossero messe a girare da tutt’altra parte e quello che “doveva” essere il giorno della madre di tutti i ribaltoni, il giorno della riscossa della grande coalizione (ex-fascisti, ex-comunisti, filini, valoriani, casini e chi più ne ha più ne metta, tutti uniti sotto la grande bandiera dell’antiarborismo viscerale) rischiava di divenire il giorno della più sanguinosa disfatta che i progressisti, che pur avevano promosso, sponsorizzato e esaltato quel fatidico 14 Dicembre (un piccolo D-Day di casa nostra), avessero mai subito nella loro gloriosa, se pur controversa, storia.
Certo se il 14 (rimuginava il Garga) quel diavolo d’un B. porta a casa la fiducia, nonostante il cambio di giubba di Fini e dei suoi, nonostante la chiamata a raccolta di tutti i cani sciolti della politica italiana sotto la bandiera del PD, nonostante il battage massmediatico degli anchor-men amici (Fazio, Santoro, Annunziata, Scalfari, Floris eccetera eccetera) e nonostante anni di sputtanamenti vari (veri e presunti ma comunque tutti fedelmente documentati dal giornale dei giornali: la velina scalfariana), non so più cosa fare.
Beh, pensava, dovrò fin da ora procurarmi un buon motivo per giustificare la figuraccia. Pensò vorticosamente: motivi buoni, giustificazioni credibili non ce n’erano, almeno di prima mano.. sudava. Si agitò nervosamente nel letto mentre tutto uno scenario infernale si spiegava dinanzi agli occhi della sua immaginazione: …vedeva il Cavaliere Vittorioso… vedeva folle che inneggiavano a B. Premier a vita… vedeva Franceschini che gli toglieva il saluto, Fassino che, incrociandolo nel corridoio di Montecitorio gli si rivolgeva col gesto dell’ombrello, la Bindi, già di suo poco incline alle mezze misure, che lo spingeva via.. via dalla sua sedia.. lontano..lontano..
Poi si rasserenò; il viso gli si schiarì, il respiro divenne più regolare. Aveva forse trovato la soluzione? (penserà qualcuno): niente affatto, signori e del resto quale soluzione potrebbe mai trovare uno passato alla storia di questi ultimi decenni come il più perdente fra tutti gli uomini politici europei? (Franceschini a parte). Solo aveva improvvisamente comparato la sua situazione con quella di Fini, il Quisling de noantri.
E pensando alla situazione in cui si sarebbe trovato il Presidente della Camera all’indomani di una votazione di fiducia favorevole al Duce di Arcore, Bersani si sentì improvvisamente sereno, quasi felice.
Perché sarebbe pur potuto piovere m..rda su di lui, ma, pur incessante, puzzolente e degradante sarebbe stata acqua di colonia rispetto alla valanga himalaiana di m..rda, allo tsunami globale di m..rda, all’inondazione megagalattica di m..rda, all’eruzione interspaziale di m..rda fresca, inattaccabile ed insolubile che avrebbe travolto nelle sue schifosissime spirali il saputello fasciocomunista, il piccolo Cesare fallito, il presupponente demiurgo in doppiopetto e ditino alzato, il transfuga stolto….
“Non mi è mai stato simpatico”, pensò oscuramente Bersani.
Ebbe un tremito, un brivido, una breve sensazione di freddo e poi un raggio di luce improvvisa lo svegliò. Era l’alba! Senza accorgersene si era addormentato e quelle brutte sensazioni non erano state altro che incubi!
Bersani si sentì rinascere. Era il 14, doveva prepararsi per il grande giorno, quello che avrebbe segnato il suo trionfo e la rovina irreversibile del suo acerrimo nemico. Nient’altro che un sogno! Si avviò verso Montecitorio con la faccia di sempre, con l’andatura di sempre, con il portamento di sempre; ma un pensiero aveva cominciato a roderlo dentro e restava lì, non se ne andava.. non se ne voleva andare. E se invece… Scacciò quel pensiero inopportuno dalla mente; “Vinceremo sicuramente” si sforzò di pensare. Ma se…

L'ALLUVIONE

martedì 7 dicembre 2010

 Questa volta il silenzio l’ho rotto io. Dario infatti, stranamente visto che è sempre lui ad innescare la conversazione, dopo i brevi saluti iniziali se ne era rimasto zitto e camminava accanto a me tutto assorto in chissà quali pensieri, il bavero rialzato, le mani nei guanti (era un freddo boia), il cappello rincalzato nella testa e l’immancabile copia de “La Repubblica” che gli spuntava da una tasca del cappotto.
“Allora amico mio, sarai contento.” Ho esordito “A sentir Scalfari e la banda che tende al ribaltone ormai è fatta. Il 14 sfiducia sicura, netta, inappellabile; tutti giurano che c’è la maggioranza per cacciare il dittatore, rilanciare la democrazia umiliata da tanto scempio cavalleresco (nel senso che l’ha compiuto il Cavaliere)  e portare l’Italia verso quel futuro radioso che si chiama Restaurazione. Riavremo l'ICI sulla prima casa, le tasse sui BOT, il sei politico ai somari, e i ricercatori universitari a vita. Che s’era messo in testa il Berlusca; di poter governare solo perché la maggioranza degli italiani aveva votato per lui? O non le conosce le regole della democrazia? I voti valgono solo se sono voti responsabili; poiché chi vota per il Cav è evidentemente irresponsabile (oltre che ignorante, incolto, affamatore del popolo e dichiaratamente più attirato dalle veline che dai trans) è giusto che i suoi voti non possano essere considerati validi per determinare una maggioranza in Parlamento. Quindi non resta che aspettare; il 14 di Dicembre è vicino e già dal giorno dopo il despota di Arcore sarà un cavaliere disarcionato, senza più alcun potere e pronto per essere cotto a puntino da tutta una schiera di magistrati e di giornalisti d’assalto che attendono solo di vederlo legato e con la museruola per scatenarglisi contro con tutte le forze di cui dispongono i rivoluzionari postcomunisti e le loro tribune (Annozero, Ballarò, le D’Addario, Wikileaks, Raitre, Fazio, Benigni, Cornacchione, eccetera eccetera). Sarai contento” ho concluso.
Dario non rispondeva. Pareva non aver nemmeno sentito quello che avevo appena detto (e pensare che mi ci ero impegnato a fondo in quel pistolotto) e continuava a camminare accanto a me come se io non ci fossi nemmeno. Dopo un minuto, seduti davanti alle nostre fumanti tazze di tè verde, si è scongelato.
“Biri, Biri” ha fatto scuotendo il capo. E si è fermato lì. Io: come non avesse aperto bocca.
Dopo due altri minuti (e altre due sorsate di tè) evidentemente richiamato alla realtà dal fragrante aroma dell’esotica bevanda, ha manifestato il perché delle sue preoccupazioni:
“E se vince lui? Voglio dire: e se il 14 in un modo o nell’altro il Berlusca ottiene la fiducia alla Camera e al Senato?” e dopo una pausa gravida di incertezza: “Ci resterà a vita!”. Poi, silenzio. (da parte sua).
“Caro Dario, amico mio” ho detto dopo aver finito, con una lunga, piacevolissima sorsata, il mio tè: “Cosa dici mai: la fiducia al cavaliere? Il problema non si pone. Almeno me lo auguro per te e per quelli che la pensano come te, che sono tanti e degni di stima e di rispetto. Me lo auguro per Fini, per Bocchino, per Di Pietro, per Casini. Me lo straauguro per quella brava persona che è Bersani, per il brillante Fassino, per l’onesto D’Alema, per l’intelligente Bindi, per il cinefilo Veltroni. E me lo auguro per Scalfari e i redattori della Re-pubica, per il direttore di Famiglia Cristiana, per quei campioni di imparzialità che sono i santori, i saviani, i fazi, i benigni, i floris…”
Ho fatto una piccola pausa, il tempo per alzare lo sguardo e fissarlo nei suoi occhi. “Non si pone, perché se succedesse, se dopo tutti questi mesi in cui questi personaggi si sono affacciati mattino, pomeriggio e sera davanti ai nostri occhi, nei telegiornali, nei talk show, negli editoriali, nei tazebao, negli striscioni, nei resoconti riservati… e dove ci hanno detto che il Governo non c’è più, che la maggioranza non c’è più, che Berlusconi è finito, che se ne deve andare.. e dove ci hanno detto che i numeri ci sono, che li hanno contati e ricontati… e insomma dove ci hanno persino convinto (non a me, però) che, abbattuto il governo non bisogna però andare alla elezioni perché il Berlusca rivincerebbe anche quelle… ebbene, se dopo tutto questo, si arrivasse al 14 e risultasse che il Cavaliere ha ancora la fiducia… no Dario, no Dario. Non avverrà; non potrà avvenire. Ne sono sicuro.”
“Ma.. se succedesse?” ha domandato (facendo un grosso errore) Dario.
“Dario, se succedesse tutti quei personaggi sarebbero travolti dalla più grande alluvione di merda della storia. Una alluvione di una portata tale che quelle di Firenze, quella del Polesine e lo tsunami che devastò il Pacifico in confronto sarebbero pioggerelle primaverili. Se penso alla quantità a alla qualità di merda che si abbatterebbe su tutta quella gente sprofondandola nel pubblico ludibrio e in una situazione più penosa che ridicola.. se penso alla difficoltà a all’altezza dei salti mortali che, dopo la votazione, sarebbero costretti ad affrontare; se penso alla libidine esagerata del Cav e dei suoi amici… no Dario. Non me lo auguro. Un po’ di carità cristiana ce l’ho anche io e sotto Natale, voglio esercitarla. Spero quindi, con te, che quelli anti-Cav abbiano fatto bene i loro conti. Per il loro bene. E anche per te”.
Poi, visto che non ribatteva, gli ho sorriso: “Buon Natale, amico mio”.

LA IENA

domenica 5 dicembre 2010

La iena è un mammifero appartenente all’ordine degli ienidi che vive in Africa.
La iena è alta  poco meno di un metro, ha le dimensioni di un cane lupo e si caratterizza per il pelo corto e ispido e la costituzione robusta. La parte posteriore del suo dorso è visibilmente schiacciata verso il basso, quella anteriore è caratterizzata da una folta e ispida criniera, la gambe, esili ma robustissime, sono munite di forti unghie adatte a scavare il terreno. Il muso è nero, il naso perennemente umido irto di setole, la bocca larga mette in mostra una dentatura feroce con zanne smisurate che le servono per triturare le ossa; altre zanne fuoriescono dalla bocca e si ergono, ricurve, verso l’alto. Una ghiandola, posta accanto all’ano, secerne in continuazione un liquido puzzolente che la ricopre dalla testa ai piedi.
Le iene sono animali sociali; vivono infatti in piccole tribù che si muovono nella savana o ai margini della foresta, spostandosi al seguito dei grandi mammiferi. Le iene infatti sono di indole estremamente vigliacca; raramente affrontano gli altri animali in campo aperto e si accontentano di seguirne le orme accontentandosi dei loro avanzi oppure che uno di essi muoia nel qual caso non esitano a cibarsi del suo cadavere.
Benché la sua innata mancanza di coraggio la dissuada dallo sfidare gli altri predatori della foresta, pur tuttavia, in certe situazioni, la iena si avvale della tattica del branco per sfidare animali più forti, più veloci, più coraggiosi e più intelligenti di quanto essa sia; uno di questi casi si verifica quando la iena si accorge (o presume) che il suo avversario è malato, vecchio, ferito, o comunque non in grado di lottare al massimo delle sue possibilità.
Potesse avere un motto, il suo sarebbe: “snerva, innervosisci, indebolisci il tuo avversario con ogni mezzo; cerca un punto debole e insisti su quello; mordi e fuggi, attacca e nasconditi, colpiscilo a tradimento e pur senza dar mai l’impressione di essere il suo nemico, datti da fare in continuazione per indebolirlo”.
Prendiamo ad esempio il leone, il re della foresta. Esso è il più forte, il più feroce, il più imponente e il più coraggioso animale della savana; lotta a viso aperto con tutti gli altri animali, ed è in grado di sconfiggere non una, ma dieci iene. La iena però sa attendere, impassibile, senza dare nell’occhio, nell’ombra, e, venuto il momento opportuno,può colpire. Uno si può chiedere: ma perché la iena  ce l’ha così tanto con il leone da impegnare tutte le sue forze, a rischio della propria vita, per abbatterlo? Non potrebbe usare la sua malizia contro gli altri animali, magari quelli più alla sua portata? Perché il sogno della sua vita è proprio quello di distruggere il leone pur sapendo che senza di lui ci sarà meno cibo anche per tutti gli altri animali, iene comprese, che si nutrono dei resti delle sue cacciagioni? .
La risposta è semplice: la iena oltre che vigliacca è ambiziosa e ancor più che ambiziosa è invidiosa oltre ogni misura; invidiosa al punto che non gli importa se la sua invidia potrà portare danni alla comunità degli animali della savana; ciò che vuole è portare alla rovina (ma con il minimo rischio) l’animale più glorioso, più bello, più coraggioso e più leale che ci sia in giro; l’animale che, per il semplice fatto di esistere e di agire, la pone continuamente di fronte agli occhi quello che lei non sarà mai rispetto a quello che lei è: una bestia sgangherata, fatta male, puzzolente, torva, malevola, inetta, guardata con sospetto e ribrezzo da tutti gli altri esseri del creato.
Ovviamente la iena non vuole correre rischi; sa che affrontare il leone allo scoperto, in pieno giorno e da sola significherebbe inevitabilmente la sua fine..  Ma la iena ha dalla sua un innato senso dell’inganno e del tradimento. Quando pensa che sia arrivato il momento di sfidare il leone, chiama a raccolta tutto il branco e passa all’azione. Innanzitutto occorre stancarlo. Le iene, ogni notte, disposte in circolo a debita distanza dal leone cominciano a ululare, a turno. Il loro verso è simile ad una oscena risata e tende a far sì che il leone non possa prendere riposo e si debiliti. Nei giorni successivi, gruppi di iene, simulano attacchi al leone. Gli si presentano davanti in dieci, quindici, aggressive, feroci e quando quello parte all’attacco, subito tutte si disperdono per la savana, chi a destra chi a sinistra. Il leone, dopo una rincorsa infruttuosa, torna sui suoi passi e subito un altro gruppo di iene gli si para davanti. Nuova rincorsa, nuovo nulla di fatto.. la stanchezza del re della foresta aumenta. Dopo un mese, due mesi di questo trattamento, una iena (il capo del branco), pensa sia giunto il momento tanto atteso. Una notte, fingendo di esser malata, con gli occhi chini, l’andatura traballante, le orecchie abbassate e la coda tra le gambe, si avvicina timidamente al leone chiedendogli tacitamente di potersi cibare dei suoi avanzi. Il leone, che oltre a tutte le sue qualità ha anche quella (pericolosissima) di essere generoso, si volge dall’altra parte; è il suo modo per dire alla iena che gli concede il permesso di avvicinarsi pure a ciò che è avanzato del suo pranzo. E’ un attimo: non appena quello, fiducioso, volta la testa, la iena, veloce come il lampo, lo addenta profondamente nella schiena provocandogli una dolorosa ferita. Poi fugge. Il leone, stupito, addolorato per l’inganno subìto più che per il forte dolore che avverte, cerca di raggiungerla ma ecco che da ogni parte, decine di iene si precipitano su di lui.. Chi lo distrae, chi lo intralcia, chi corre da una parte, chi dall’altra, alcune lo feriscono, altre cercano di morderlo, molte gli si slanciano addosso, poi si ritirano, poi tornano all’attacco. Alla fine, quando il povero leone è ormai stanchissimo, tutte le iene, anche quelle che da mesi seguivano timidamente le sue cacce e si cibavano dei suoi rimasugli di cibo (quelli che lui, generosamente, credendole amiche, gli concedeva), ora gli si avventano contro. Alcune finiscono sbranate dagli artigli del grosso felino, altre fuggono, codardamente, ma molte, rese audaci dalla consapevolezza che l’altro è ormai in palese difficoltà, lo assalgono. Mentre quattro o cinque iene, le più giovani, gli si parano decisamente davanti, le altre lo attaccano da dietro, da lato, da ogni dove. Ognuna lascia la sua ferita, il suo morso, il suo segno, la sua unghiata: il sangue del leone sgorga da tutte le parti. Alla fine, il glorioso animale soccombe; non è più che una sagoma informe sanguinante sotto un nugolo di trionfanti iene che, l’orrendo muso grondante di sangue, levano al cielo il loro latrato vittorioso che rintrona, sinistro, per tutta la savana.
Alcuni studiosi riferiscono che alcuni comportamenti degli animali selvaggi ed in particolare quelli delle iene, si possono rinvenire, a ben guardare, anche nella moderna società umana. Specialmente in quella italiana dicono; e aggiungono: particolarmente nella vita politica.. Ma io non ci credo: gli uomini sono diversi dalle bestie.
O no?

LA SCOMPARSA DI MARIO MONICELLI (30 Novembre 2010)

giovedì 2 dicembre 2010

E così, orgogliosamente solo, ha scelto l’ora e i modi della sua morte. Si è schiantato sull’asfalto e l’ha fatta finita con la vita, quella vita che tanto gli aveva dato ma che ora lo aveva lasciato solo. Mario non ce l’ha fatta ad aspettare; si è guardato intorno, ha visto che non lo vedeva nessuno ed è volato via, giù dalla finestra, in una gelida sera di novembre.
Muore così l’ultimo della generazione dei grandi Registi italiani; molti critici, che ora lo commemorano con parole fin troppo esagerate, lo definirono, a suo tempo, “solo” un solido mestierante, come se nel richiamo al “mestiere” ci fosse qualcosa di spregiativo, o di mediocre, piuttosto che il riconoscimento più alto per uno come lui che sapeva usare le tecniche cinematografiche per quello che c’è di più solido in un film, e cioè volgendole al servizio del racconto. Il pubblico amava i suoi film (come quelli di Risi, di Blasetti, di Comencini, di Zurlini) anche se gli intellettuali in eskimo di casa nostra stravedevano per Antonioni, Bellocchio e Petri (che facevano “cinema con un messaggio”) e poco si interessavano agli altri registi considerati “meno impegnati” e ridotti a fare film meramente commerciali o (la definizione sinistrese è impagabile) “d’evasione”; come a dire film per poveri deficienti.
La gente se ne fregava e affollava all’inverosimile le sale cinematografiche dove davano “Il sorpasso”, “Poveri ma belli”, “Estate violenta”, “I soliti ignoti”, “L’armata Brancaleone”, “Tutti a casa” e tutta una serie di decine di titoli che, in quei irripetibili vent’anni, hanno dato più lustro all’Italia cinematografica che mille entusiastiche recensioni di Cinema Nuovo e Repubblica alle seghe mentali di Bellocchio e company.
Monicelli era uno di loro, uno di quei bravi “mestieranti” che, guarda caso, hanno costruito l’unico cinema nazionalpopolare del dopoguerra e l’unico genere cinematografico prettamente italiano che è tuttora studiato, esportato e copiato (prima di tutti da Hollywwod) in tutto il mondo. (Si dirà: ma il neorealismo, cos’è allora: fuffa? Affatto e molti sono i film di valore di quel genere nato dalle circostanze e dalla penuria del dopoguerra. Solo che non era cinema per il popolo. La gente non apprezzava quei film e faceva le file per i polpettoni melodrammatici di Yvonne Sanson e Amedeo Nazzari; il neorealismo, lungi dall’essere cinema popolare è stato un cinema di e per intellettuali).
E così, salvo i soliti tardivi riconoscimenti, piano piano (il tempo è galantuomo, lui) ci si sta rendendo conto che il più attendibile critico cinematografico è il pubblico. E non potrebbe essere altrimenti dato che il cinema nasce, si sviluppa e muore (proprio in questi anni) in funzione del gradimento del pubblico. Se non si rivolgesse alla gente, non ambisse ad essere visto dal maggior numero di persone e non tendesse a fare più profitti possibile, il cinema semplicemente non sarebbe mai nato.
Monicelli, come altri bravissimi direttori della sua generazione, l’aveva sempre saputo ed aveva (quasi) sempre saputo dare al suo pubblico quello che questi voleva e si aspettava da lui. I suoi innumerevoli spettatori, che da lui erano stati così magistralmente serviti, lo hanno ricambiato con il successo quando era ancora in vita, e, ora che se ne è andato, con un sincero rimpianto (che è il massimo che un artista si può ragionevolmente aspettare).

FAME DI CULTURA

martedì 30 novembre 2010

Non ero in vena di facezie, oggi; era un giorno grigio, faceva freddo, soffiava un vento ghiaccio e a tutto ero portato fuor che alla critica costruttiva, così quando il mio amico mi ha detto “Hai visto? Ora il Berlusca se la prende con la Cultura (ha pronunciato la magica parola con la C maiuscola). Tagli alla scuola, tagli alle Università, tagli al teatro, tagli al Cinema; vuoi sapere dove andrà a finire l’Italia nella considerazione internazionale? Dopo il Burundi!” dimostrando con questa affermazione, oltre all’esplicita critica verso l’operato del Governo, anche un immotivato disprezzo verso tutti gli intellettuali della simpatica nazione africana.
“Dario, scusami tanto” gli ho replicato a muso duro “ma con tutta la tristezza ontologica che mi ritrovo, con tutto lo spleen indotto dalla grigia giornata autunnale, quello che proprio non desidero è lasciarmi coinvolgere in un dibattito sulla cultura” (l’ho detta, la parola magica, con la minuscola) “Anzi, ti dirò: è un po’ di tempo, e cioè da quando hanno acquisito status culturale le recensioni di Repubblica, i DVD de l’Espresso, i talk show con Saviano, Santoro e Fazio ed i film di Moretti, che, quando sento parlare di cultura, ho l’impulso irrefrenabile di stendere il braccio destro davanti a me e, chiusa la mano a pugno, estenderne verso l’alto il dito medio con una forza e una virulenza che chiunque giudicherebbe insospettabile in un giovialone come me. E’ un riflesso biasimevole ma, essendo incontrollabile, non ci posso far niente.”
“Scherza, scherza” Dario ha sempre l’impressione (errata) che io scherzi, “Ma la ricerca dove la mettiamo? E i precari? E gli studenti? Non ti preoccupa la formazione culturale dei nostri giovani, della classe dirigente di domani?”. Mi provocava.
“Oh Dario, sai quanto me ne frega di quella strana entità, quel coacervo di esperienze personali, usi, costumi, studi, ispirazioni, invenzioni, rivisitazioni eccetera eccetera che, mescolati e interpretati alla luce della storia (umanistica, civile, artistica e religiosa) di un popolo si suol chiamare Cultura. Sai che ti dico? La cultura è morta, stramorta e seppellita. E senza un funerale, una lagrima o una commemorazione; defunta; sparita; kaputt.”
Definire sconcertata l’espressione di Dario è puro pleonasmo.
“Certo che anche io vivo in questo mondo e leggo i giornali e guardo la televisione. E in TV vedo torme di giovani (appellati col titolo di “studenti” dal commentatore) che manifestano contro la “morte della cultura” (così dicono). Oggi l’onore delle cronache è toccato alla manifestazione studentesca di Roma dove un lungo corteo si è snodato per le vie cittadine diretto a Montecitorio. Mi sono soffermato a guardare il servizio per qualche minuto. Questi cortei sono sempre uguali: a favore di telecamera si avanza un grosso corteo variopinto (ma tendente al rosso). La primissima fila è composta da giovani di terzo pelo incazzatissimi acconciati secondo i canoni del celebre (ma trito) look rivoluzionario. Tutti hanno giubbotti imbottiti, sciarpetta stile al-fatah al collo, jeans sdrusciti e scarpe da ginnastica; molti indossano il casco integrale, altri hanno massicce sciarpe di lana girate e rigirate sul viso. Abbondano i piercing. Si fanno scudo con un lungo striscione bianco, dove, a caratteri cubitali rossi c’è scritto: - GLI STUDENTI ITALIANI HANNO FAME DI CULTURA -. Dietro a questa prima fila, si avanza una massa disordinata di giovani e meno giovani, maschi e femmine, molti impugnano la mitica e rivoluzionaria bomboletta spray (che non se lo scordino il loro corteo, i muri ed i monumenti cittadini), altri con il lettore mp3 all’orecchio, altri ancora con i telefonini posizionati a videoriprendere quei gloriosi momenti (pro Youtube) ma tutti scandendo in coro gli slogan lanciati dai loro leaders più battaglieri dove risuonano, ferocemente sarcastiche, le solite offese contro i potenti e gli attentatori alla loro unica ragione di vita che è quella di crescere sani, poter avere ogni settimana abbastanza soldi per la discoteca, il motorino e la ricarica della chiavetta, usufruire delle mille possibilità che la nostra odiatissima civiltà gli offre (come ad esempio, bloccare la circolazione, sfondare vetrine, danneggiare auto e poter partecipare impunemente a cortei non autorizzati come questo) ma soprattutto poter godere di quei piaceri intellettuali che solo una buona cultura potrà offrir loro.
E così, l’eccitatissimo intervistatore di RAI3 (c’è sempre qualcuno di RAI3 dove c’è casino) può chiedere, pleonasticamente: “Molti dicono che siete manovrati da qualcuno.. voi cosa gli rispondete?” per sentirsi ribattere, a muso duro, da un barbutissimo pluriennale fuori ruolo: “Che se lo vadano a ripiglias… in der c… Vojamo la cultura noi! Senza la cultura nun se po’ vive!”. Interviene una ragazza (un piercing alla narice sinistra, un altro sopra il sopracciglio, rossetto marrone e occhi nero cerchiati): “Io vojo solo de potè studià. Non ce possono impedicce de studià!”. Applausi, urla, grida: “Brava Sabrì; dijene ‘ste cose a tutti quelli che ce vojono ‘gnoranti!”.
A dire il vero, non tutti gli studenti manifestano in piazza. Quelli che non ci sono andati però le telecamere di RAI3 non li inquadrano: non fanno notizia. Loro sono rimasti in classe, a seguire le lezioni dei pochi professori che non hanno solidarizzato con i manifestanti. Cosa fanno? Ascoltano le spiegazioni, prendono appunti, si impegnano con la versione in inglese, cercano di risolvere il problema di matematica, rispondono meglio che possono ai quiz di valutazione. Si vede proprio che a questi, della cultura, non gliene frega niente. 

L'ODIO

venerdì 19 novembre 2010

Quando si parla di sentimenti l’odio è condannato (almeno a parole) pressoché da tutti.
E’ un sentimento negativo, si dice, perché è l’opposto dell’amore; è un sentimento di ripulsa verso un uomo, una nazione, un popolo, una classe, una idea, che può diventare cieco, irresponsabile, violento, dirompente, inestinguibile. Quando una persona, o più persone, è in preda all’odio può compiere qualunque atto, qualunque nefandezza, qualunque tradimento, qualunque infamia, pur di soddisfarlo.
Così si dice. O meglio; si diceva.
Già perché da qualche anno a questa parte l’odio ha acquisito un altro tipo di status; come dire: il vecchio vituperato sentimento si è ammantato di una certa pàtina di nobiltà, e, piano piano, ma irresistibilmente, sta acquisendo diritto di cittadinanza presso gli animi più puri ed elevati della nostra gloriosa Nazione.
Tutto è cominciato quando una certa persona (un Carneade, un parvenu, un chissacchì) si è messo di traverso al sacrosanto (e pressoché già acquisito) diritto delle forze progressiste di dirigere il Paese onde portarlo diritto verso le albe radiose del Progresso, del Relativismo, della Multiculturalità Rivoluzionaria, del Sei Politico e del Ripristino dell'ICI.
Beh, quell’intrusione proditoria seguita dalla sua inaspettatissima vittoria, le forze del Bene, non l’hanno proprio mandata giù e dopo un attimo di legittimo smarrimento sono passate al contrattacco elaborando la strategia capace di annientare il parvenu regressista e ripristinare la democrazia violata secondo il sempre valido detto post-stalinista che recita: “La democrazia è l’esercizio della volontà popolare (purché questa sia simile alla nostra)”.
La strategia che ogni sincero democratico, scornato elezione dopo elezione dalle continue vittorie del Nostro, ha elaborato, accettato e praticato deriva dal semplice assunto:
“Il popolo è con noi ma vota l’Altro. Noi non possiamo fare a meno del popolo ma faremmo volentieri a meno dell’Altro. Eliminiamo l’Altro e il popolo tornerà da noi”.
Ed ecco programmata, giustificata e perseguita la più grande campagna d’Odio contro un’unica persona che sia mai stata effettuata negli ultimi secoli. Odiare quell’importuno e fargliela pagare con ogni mezzo: abbatterlo con la forza dell’Odio utilizzando tutte le sue armi: l’Offesa, la Messa in Ridicolo, la Diffamazione, la Calunnia, la Diffusione dei Peccati, il Tradimento, la Persecuzione Giudiziaria e, per ultima, la Violenza Fisica.
L’Odio verso l’importuno occupa stabilmente i pensieri di migliaia di militanti sinistrorsi, i mezzi più fantasiosi per estrinsecarlo popolano i loro sogni; allenarsi all’Odio è un training che svolgono continuamente in modo che il loro Odio si rafforzi, si cementi, trovi sempre nuove occasioni per dimostrarsi.
Per farlo poi basta scatenare tutte le armi, accantonate durante gli ultimi decenni, che ora vengono utilizzate per la Sacra Campagna contro l’Usurpatore del Volere Popolare: ecco mobilitati i giornali, i talk show televisivi, le manifestazioni di piazza, gli scioperi, le interrogazioni, le perquisizioni, i procedimenti giudiziari, le contestazioni, i centri sociali e chi più ne ha, più ne metta.
Poiché si può ragionevolmente pensare che nessun uomo possa resistere ad una campagna d’Odio come quella messa in atto finora, ecco che i coraggiosi partigiani della ortodossìa democratica potrebbero sentirsi legittimamente autorizzati a prenotare fin da ora il tavolo del banchetto che sancirà, con una di quelle unitarie cene popolari per cui la sinistra nostrana è giustamente celebrata nell’universo mondo, oltre alla fine del Dittatore (compresa la sua rovina umana, aziendale, patrimoniale e familiare), anche l’avvento al Potere della sola forza autorizzata a farlo in base al principio che “chi non è con noi è contro di noi, noi abbiamo ragione per principio, ergo chi non è con noi ha torto marcio”. Non fa una grinza.
Ma… c’è un ma. La remora deriva dal fatto che il popolo è un animale strano. Lo blandisci proteggendo le sue debolezze più estreme, lo distrai e lo fai ridere con i tuoi comici combattenti, lo accontenti facendolo sfilare dietro le bandiere spiegate della Rivoluzione, cerchi di indignarlo con le campagne che mettono in piazza i vizi privatissimi del Nemico e questo che fa? (il Popolo). Quando c’è da votare o resta a casa a guardare la partita (o il Grande Fratello), o, se proprio deve andarci (a votare), si concentra un attimino, e, dopo aver fatta mente locale a quali sarebbero le eventuali alternative, fa la croce nel quadrato sbagliato.
E’ un bel problema. E se Quello ce lo ritrovassimo di nuovo a capo ancora dopo quasi vent’anni di lotta dura e pura (dicono i democratici)?
Beh, pensano, se il problema deriva dal voto il rimedio ci sarebbe e facile da attuare: elezioni a lista unica, ovviamente la nostra. Sarebbe una soluzione democratica al cento percento, anche. E del resto chi potrebbe dire che la Repubblica Democratica di Corea non è democratica? E la Repubblica Democratica Cinese cos’è, non è democratica? Lo dice la parola stessa. E allora come potrebbe il nostro Partito Democratico non essere democratico; chè scherziamo?
B.

BERLUSCONISMI

giovedì 4 novembre 2010

Dario era raggiante, me ne sono accorto appena l’ho visto, fermo che mi aspettava al solito posto.
“Hai visto?” ha fatto tutto allegro e con gli occhietti ammiccanti “il lupo perde il pelo ma non il vizio. Dagli e ridagli le magagne vengono al pettine. Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino” ha concluso in bellezza. Si è messo poi in attesa della mia inevitabile domanda, scontatissima del resto, ma che, per onorare il gioco delle parti, mi sono prestato a fargli:
“Scusa, non ti capisco (ho mentito); mi spieghi che cosa vuoi dire? O meglio: a chi ti riferisci?” (come se non lo sapessi!).
“Dai, Biri! Non fare finta di niente! Il “tuo” Cav è bell’e spacciato. E non è inciampato nei trabocchetti dell’opposizione, dei sindacati, della magistratura o della stampa amica della sinistra. Ha sacrificato il potere, il voto di milioni di elettori e la sua reputazione (posto che ne avesse ancora una) per la più banale delle tentazioni: la f…! (qui Dario ha pronunciato una parola bisillaba che, puritano come sono, non mi sento di trascrivere).
Restando io pervicacemente in silenzio, l’amico, per consolidare il  suo vantaggio, ha pensato bene di proseguire:
“E ora è inutile menarla con le solite giustificazioni tipo: ognuno in casa sua può fare quel che vuole o: si tratta di provocazioni mediatiche o: non è successo niente di irregolare o anche, più bella di tutte: tutte queste notizie diffamatorie, invece di indebolirlo, il Cav lo rafforzano. A questa non ci crede più nessuno. Nemmeno te.” Ha concluso guardandomi negli occhi per gustare il suo trionfo.
Ho deciso di rispondergli, non per niente, ma perché l’argomento aveva cominciato ad annoiarmi.
“Caro Dario” gli ho fatto “credi proprio che me la prenda tanto a cuore per le (dis)avventure pecorecce del (come dici tu) “mio” Cav?. Guarda che a me queste cose non fanno né caldo né freddo. E’ solo perché sono affetto anche io di quella sindrome che chiamano “berlusconite potenziale”, che il Cav un po’ lo capisco. E sai perché? Perché sono sicuro che tutti gli affetti da questa patologìa (la berlusconite, intendo) che sono tanti a anche di sinistra, sono pronti a perdonargli quasi tutto ciò che possa aver fatto (escludendo i reati, è ovvio) in nome della Narda”.
“Ma che diavolo ti inventi ora? La Narda… che diavolo è la Narda? E che significa che tu sei affetto da berlusconite potenziale?” ha chiesto Dario, che pensava di avermi messo al tappeto con un uppercut micidiale e mi ritrovava davanti a lui, in guardia e più tosto di prima.
“Dario, amico mio” ho ribattuto “ma come non sai cos’è la Narda? La Narda è quella cosa che fa muovere il mondo, che modifica la storia, che fa erigere monumenti e dichiarare guerre, che crea e distrugge carriere e fortune e con la quale, in un modo o nell’altro, a prescindere dall’uso che ne abbiamo fatto ne facciamo o ne faremo, io, tu, e tutti quanti abbiamo avuto a che fare fin dalla nascita. Tu prima l’hai chiamata in un altro modo che, devo dire la verità, mi è sembrato un po’  volgare così io ne ho usato un altro un po’ più soft anche se l’oggetto, anzi, la parte indicata, è la stessa. Quanto alla mia predisposizione a quella patologia che va sotto il nome di berlusconite (da colui che per primo l’ha presa, coltivata e implementata a livelli mai visti prima), devo dire che anche io, nel mio piccolo, l’ho presa in pieno, anzi, forse l’ho sempre avuta senza che me ne rendessi conto. Peccato che la specie di berlusconite che mi ha colpito è meno divertente di quella classica (quella del Cav per intenderci) dato che io sono stato colpito dalla forma più penosa (nelle manifestazioni e nel decorso), quella che va sotto la denominazione di “berlusconite ideologica o potenziale”. Per spiegarti di che se tratta ti dirò che i sintomi sono gli stessi della berlusconite classica cavalleresca: adoro essere circondato da giovanissime ragazze poco vestite che fanno a gara per coccolarmi, mi piace che ognuna di esse faccia la carina con me e come si ingegni in ogni modo affinchè possa essere lei quella prescelta, quella che dividerà il letto con me, almeno per una notte. Questi sono i sintomi della berlusconite e io, come vedi, ce li ho tutti. Purtroppo per me, la mia è la forma degenerata, o platonica (da qui l’aggettivo “ideologica” o “potenziale”) che consiste in questo: i sintomi ci sono tutti salvo il fatto che mancano drammaticamente i soldi, le ville e le piscine e, in quanto alle ragazze, non ho mai visto da vicino né una velina, né una escort e nemmeno un’hostess di terza mano. Ovvio che, con questi presupposti resto un berlusconistao solo ideale, o potenziale se preferisci. Ma se avessi tutto quello che mi manca, sono sicuro, potrei fare come e meglio del Cav.”
“Così tu lo scusi? Lo giustifichi?” ha ribattuto Dario facendo finta (si vedeva lontano un miglio) di scandalizzarsi “Fai pure ma lo sai che ti dico? IL Cav questa volta ha toppato: gli italiani non gliela lasceranno passar liscia. Aspetta solo qualche giorno: te lo ritroverai in galera accusato di pedofilia o forse in clinica a disintossicarsi di… come hai detto? Di Narda.”
“Dario Dario, cosa vuoi che ti dica. Forse che sì, forse che no. Stai attento che il Cav ha sette vite. Può darsi che alla maggioranza degli italiani, nonostante i presunti scoop pecorecci della velina rossa (sì, hai capito bene: il foglio scalfariano che ormai tutti chiamano la Re-pubica) il Cav vada ancora bene come premier, sia che guardino a come si è comportato al governo, sia se realizzano bene chi andrebbe al suo posto. Fai pensare: Veltroni? Bersani? Forse Franceschini? No, lui no. Ah, ecco: Vendola. Pensi a Fini? Può darsi. O Di Pietro, tanto per parlare di un moderato? Che fai: taci? Lo immaginavo: sarebbe dura da mandar giù doversi risorbire le trimurti alla Prodi, Visco e TPS di non lontana memoria. E te la immagini la cronaca italiana senza il Berlusca? Nessuno si interesserebbe più alla politica, dai retta a me. Al governo solo vecchi coi musi lunghi, giovani presupponenti e femmine racchione; quanto alle cose che rendono divertente la politica (che non è cosa da prendere sul serio, su questo sarai d’accordo con me) mai una battuta, mai niente da ridire, satira azzerata, articoli e commenti appiattiti disperatamente sulle banalità tipo Prima Repubblica. E pensa ai sindacati che non potendo più indire non dico uno sciopero generale, ma nemmeno una agitazioncina studentesca, in breve tempo si troverebbero a contare meno di quanto conta oggi la CGIL alla FIAT; pensa alle miriadi di comici, vignettisti, imitatori e tutti quelli che hanno costruito la loro effimera popolarità in chiave anti-Cav che si troverebbero disoccupati dall’oggi al domani. Quanto alle relazioni internazionali sarebbe una catastrofe. Ti immagini Sarkozy, la Merkel, Putin e quel simpaticone di Obama, tutta gente brillante, colta, piena di savoir faire e savoir vivre, persone che apprezzano oltre alle belle donne, le battute di spirito, i doppi sensi e le barzellette anche se all’occorrenza sono in grado benissimo di fare una conferenza stampa in inglese e sanno di economia politica e di rapporti internazionali; te li immagini, dicevo, alle prese con quel bietolone di Bersani, o con il ragazzaccio Franceschini o anche… no, no non posso nemmeno dirlo figuriamoci immaginarlo…. va bé, lo dico: Di Pietro? Immagina la scena. All’assemblea Generale delle Nazioni Unite, dopo le relazioni sullo Stato del Mondo esposte da Obama e Putin, sale a parlare Di Pietro. Si mette gli occhiali, tira fuori di tasca gli appunti che un suo fedele gli ha preparato in “anglo-irpinate maccheronico”e comincia a leggerli. Dà un’occhiata al foglio mentre le mani cominciano a sudargli. Si raschia la gola, poi comincia a leggere pari pari quello che gli ci hanno scritto: -Gùmmòning ser. Ai em gled tu bi hìar…-  dopo qualche attimo di sorpresa e di imbarazzo, tutta l’Assemblea comincia a ululare contro l’oratore. Chi alza le mani facendo le corna, chi si accontenta di ostentare il dito medio levato, chi fa manifesti cenni di disprezzo, chi gli lancia bucce di popone introdotte di nascosto nel Palazzo di Vetro e venute utili per la bisogna… alcuni delegati delle isole della Micronesia tirano fuori la lingua e fanno il gesto di chi vorrebbe tagliargli la gola, altri, saliti sulle sedie, gli voltano le terga e si abbassano i pantaloni dimenando il deretano come dimostrazione di sovrano dissenso… il casino è generale. Quando alla fine Di Pietro viene fatto smettere le quotazioni internazionali dell’Italia sono al minimo storico. Nessun  premier ci rivolgerà mai più la parola; in breve battiamo il record di scarsa influenza internazionale scalzando dall’ultima posizione la tribù di antropofagi dei Burangha-Wara.”
Dario, aveva ascoltato tutto e se ne stava in silenzio ora, con gli occhi sgranati e la bocca semiaperta come se avessse dimenticato dove si trovasse.
“Per quanto mi riguarda” proseguì trionfante il Biri “il Cav poteva anche darsi una calmata. Ma che bisogno c’era, dico io, di spandere ai quattro venti le sue gesta erotiche, a base di fanciulle in cerca di visibilità e di anziane peripatetiche desiderose di aver qualcosa di importante da raccontare? Poi ho pensato che forse il Cav ostenta le sue imprese perché certi giornali, ormai declassati dagli antichi fasti di fari di obiettività e relegati al ruolo di fogliacci gossippari, abbiano qualcosa da scrivere. Ecco perché sotto sotto anche la Re-pubica si impegna perché il Cav resti al suo posto. E comunque in almeno una cosa, lascia che te ,lo dica, lo capisco e lo supporto in modo convinto e completo”.
“Sentiamo” sibilò Dario, esausto ma curioso.
“Dove ha affermato che, a parer suo (cito testualmente) “è preferibile guardare le belle ragazze che essere gay” il che, tradotto per il popolo minuto (che però l’ha capito al volo) significa che “T(bìp)mbà è meglio che p(bìììp)allo nel c(bìììp)”.
NOTA DELL’EDITORE Certi termini triviali usati del Biri sono stati censurati dal curatore del presente blog per non urtare la sensibilità degli animi sensibili.
“Ecco” riprese il Biri “in questa affermazione devo dire che il Cav mi trova completamente d’accordo. Posso capire che possa urtare tutti coloro, e ce ne sono tra quelli di sinistra, che avrebbero preferito una maggior par condicio (tipo: “T(bìp)mbà è uguale a p(bìp)allo nel c(bip)”) ma sono convintissimo che anche loro, al di là di certe polemiche di comodo della loro dirigenza e magari senza confessarlo per non urtare Vendola, Marrazzo e la Bindi, sono pronti a condividere questa affermazione piuttosto di quella fondamental-progressista che orgogliosamente recita: “è meglio p(bìp)allo nel c(bìp) che t(bìp)mbà”. In questo caso il Cav si sarebbe  guadagnato, sì, gli applausi della sinistra, ma si sarebbe alienato le mie simpatie. E il Cav a me e a quelli che, su certe cose, la pensano come me, ci tiene”

Afgani

domenica 17 ottobre 2010

Dopo l'attentato dei talebani che hanno ucciso altri alpini (4, questa volta) che si trovavano in "missione di pace" in Afghanistan, mi sembra che il Governo e le forze politiche abbiano cominciato a darsi un gran daffare per troncare sul nascere le (poche) voci che, come ogni volta che succede un fatto del genere, chiedono il ritorno a casa della nostra forza di spedizione.
In questi casi, a mio avviso, la miglior risposta e la miglior posizione del governo dovrebbe essere questa:
"Togliere le truppe dopo un attentato vorrebbe riconoscere di aver perso. Inoltre si darebbe un pessimo segnale ai talebani oltre che all'opinione pubblica che potrebbe chiedersi che cosa mai diavolo ci siamo andati a fare laggiù. Pertanto resteremo in Afghanistan fino alla completa riuscita della nostra missione e cioè fino a che tutti gli obiettivi prefissati sono stati raggiunti. Nel frattempo, ovviamente, faremo di tutto perché i nostri soldati possano difendersi con ogni mezzo dagli attentati e negli scontri in campo aperto."
Ovviamente essendo questa posizione chiara, comprensibile e condivisibile da tutti e praticamente inattaccabile oltre che "giusta", essa non è stata fatta propria dai nostri governanti.
Hanno cominciato a chiedere al Parlamento se fosse giusto o meno permettere ai nostri caccia di appoggio aereo di essere forniti di bombe (ma come: o caccia non è l'abbreviazione di cacciabombardieri? e adesso se c'è bisogno di aiutare i nostri soldati, i nostri cacciabombardieri con cosa bombardano i talebani, con i cioccolatini per addolcirli?) invece di decidere in prima persona assumendosi le responsabilità del caso. Ovvio che il dibattito prenderà una piega smaccatamente politica, ogni parte si preoccuperà di tirare acqua al proprio mulino elettoral-ideologico e i nostri soldati resteranno senza copertura aerea quando ne avranno bisogno.
Poi hanno affermato che comunque "il prossimo anno" il contingente verrà ritirato. Ma come? Verrà ritirato? In ogni caso? E quali risultati avrà conseguito da qui ad un anno? Si pensa che talebani (che, purtroppo ma è chiaro, stanno vincendo la guerra) fra un anno saranno sconfitti? Che in Afghanistan fra un anno ci sarà la nostra osannata Democrazia, la forma di governo che vogliamo esportare anche a chi la disprezza?
Sentite me: fra un anno l'Afghanistan sarà esattamente quello che è oggi con la differenza che i talebani saranno più forti e ci saranno state altre vittime da piangere.
E' brutto a dirlo, ma è così. E tutti lo sanno facendo finta di non sapere.

La gaia scienza

mercoledì 29 settembre 2010

“Ma, secondo te” mi fa Dario “com’è nato il mondo?”.
Prendo fiato e tempo. Una domanda da niente, alle 9 di mattina! E io già stavo pregustando una conversazione di tutto riposo come ad esempio discutere sui risultati dell’ultima giornata di campionato, commentare il discorso di Berlusconi alla Camera o, meglio ancora, dire tutto il male che si pensa dell’ultimo gossip, quello secondo cui Corona vuol lasciare Belen per tornarsene da Lele Mora (ahò, fermi; non prendetevela con me).
Dario però fa sul serio; pretende una risposta seria. Ed io sono pronto alla bisogna:
“Dunque, all’inizio era il Verbo ed il Verbo era Dio. Dio disse: -Sia la luce! – E luce fu. Così dice la Bibbia. E non ho alcun motivo di credere, ipotizzare o supporre che non sia la verità. Soddisfatto?”.
Dario sorride, ambiguo, con un sorrisino che la dice lunga sul perché di quella sua strana domanda (strana solo perché è tremendamente complicata, per chi non crede alla Bibbia, almeno).
“Dai Biri, chi vuoi far fesso? Non mi dirai che credi “letteralmente” a quello che non-si-sa-quando, non-si-sa-chi ha scritto sulla Bibbia. Quello è un libro sacro e come tale deve, pretende di essere interpretato. E comunque oggi non siamo a millenni fa e la scienza da allora ha fatto passi da gigante. La risposta, a me, la da la scienza.”
Va a finire che mi arrabbio anche senza averne voglia. Devo andare a vedere le sue carte.
“E di grazia” domando “cosa dice la scienza al riguardo?” sapendo che come al solito il tapino, partito per incornare, si troverà lui, suo malgrado, mazziato e con le corna rotte.
Ho rilanciato la palla nel suo campo: quello la prende al volo (il gran bischero!).
“La scienza, caro Biri, dice –incontrovertibilmente- che tutto quello che conosciamo; pianeti, stelle, galassie e tutto quello che ci sta dentro, è il risultato di un immane e continuo cambiamento. Tutto in natura si evolve, tutto è in movimento. E tutto il cosiddetto Creato deriva in effetti da un unico, infinitesimale nucleo. Un nucleo in cui era racchiusa tutta l’energia sufficiente a formare tutta la materia dell’universo. Poi, ad un tratto, questo atomo (chiamiamolo così) è esploso (sai, quello che gli scienziati chiamano il Big Bang) e ha spedito da ogni parte la sua materia-energia che ha formato, a partire da quel minuscolo nucleo originario, le galassie, i soli, i pianeti ed infine la Vita”.
Se pensava di impressionarmi devo dire che si sbagliava di grosso. Tirar fuori il Big Bang per dimostrare che Dio non esiste! Dai, roba da dilettanti; o da masochisti.
“Senti Dario” gli ho fatto “Ma questo primo atomo infinitesimale, da dove veniva? O, se posso esprimere altrimenti la domanda: chi lo aveva fatto?”. Dario ha respirato profondamente; era in difficoltà e brigava per inventarsi velocemente qualche salvagente a cui aggrapparsi: “C’era da prima” ha detto poi, poco sicuro.
L’ho incalzato:
“Ah, c’era da prima. Da quanto? E perché stava lì senza fare niente? E perché ad un certo punto si è svegliato ed ha pensato di esplodere con tutto quel chiasso, gli effetti speciali e tutto il resto e combinare questo bel casino? E perché c’è un prima e un dopo? Se c’era un prima c’era qualcosa o qualcuno anteriormente al Big Bang. Non lo credi?”.
Dario ansimava (virtualmente, ovvio; in modo tutto intellettuale).
“Beh” ha farfugliato arrampicandosi sugli ultimi specchi “C’era e poi, ad un certo punto, è esploso da sé.”
“Allora era qualcosa di intelligente! E c’era da prima dello… scoppio! (proseguendo la conversazione terra terra). Beh” ho concluso “Io lo chiamo Dio. E mi pare che la scienza concordi appieno con la Bibbia. O no?”.
“Insomma non c’è bisogno di Dio!” ha esclamato Dario (che si infuria quando sa di aver torto). “La scienza dice che l’Universo si è formato da sé!”. Poi si è messo zitto, sapendo di averla sparata grossa.
Ho fatto passare un minuto prima di ribattere.
“Dario, amico mio” gli ho fatto dopo avergli messo la mano sulla spalla “Ho letto che i nativi della Terra del Fuoco pensano che la Terra è nata da un grande Uovo. L’Uovo era stato portato nel becco da un enorme pappagallo multicolore che ad un certo punto si fermò e lo posò nel cielo, su una nuvola. Poi lanciò un grido e subito una Strega ed una Principessa, venute dal mare (non chiedermi dov’era il mare se la Terra ancora non c’era) covarono a turno l’Uovo che finalmente si schiuse. Dentro c’era il mondo.”
Dario mi ha guardato in silenzio con l’aria di chi dice: “Emmbé?”.
“Allora senti che ti dico, Dario. E’ assai più facile credere all’Uovo dei nativi della Terra del Fuoco che al fatto che l’Universo si sia fatto da sé, senza alcun intervento esterno (che io chiamo divino). E questa è anche la mia risposta alla tua domanda iniziale.”
Dario, che non è uno stupido ha replicato, calmo: “Può essere, Biri. Chissà”.
Per il momento mi è bastato.

L'Oroscopo

martedì 28 settembre 2010

Non credo al malocchio, alle cabale, ai tarocchi, ai maghi e agli stregoni. Mi fo beffe delle magìe bianche o nere. Non prendo sul serio le previsioni di disgrazie personali o collettive basate su influenze astrali, esoteriche o numeriche e non credo che si possa modificare il corso delle cose con i pendolini, le buste di sale, i corni rossi da portare in tasca o i soldi inviati al veggente di turno. I gatti neri poi mi sono simpatici e degni di rispetto (quando ho avuto un gatto è stato sempre rigorosamente nero). Insomma non sono un tipo superstizioso. E, soprattutto, non credo all’Oroscopo.
“Come?” mi fanno, preoccupati e premurosi insieme i miei amici, “Non credi all’Oroscopo? Ma guarda – mi fanno poi concilianti – che i segni zodiacali sono importanti. E il segno astrale determina il carattere delle persone e può far prevedere il loro destino.”
E siccome scuoto il capo tirano fuori quella che presumono essere la loro carta vincente. “E’ dimostrato scientificamente.” fanno tutti seri. E io, ridendo: “Balle!”. Questo li manda in bestia.
Non c’è niente che mandi più in bestia un oroscopista che l’ostentato agnosticismo zodiacale del vicino. Sia parente, amico o solamente un conoscente, sapere che quello prende il loro credo per quello che è (insomma, cazzate) li manda fuori dai gangheri. Forse è un eccesso di altruismo quello che li turba, forse è il desiderio filantropico di non permettere che l’altro continui a vivere nell’oscurità (cioè a non credere che la posizione virtuale di stelle e pianeti rispetto alla Terra ed agli altri corpi celesti in un certo momento storico possa aver influito e continui ad influire sul fatto che il tizio in questione possa o meno superare un esame, vincere al lotto, portarsi a letto la cassiera o ritenersi immune dall’avere le corna) o forse è perché, il sapere di essere in tanti a pensarla a quel modo (che il destino dipende dalle stelle) li esenta dal tentare strade che richiederebbero più difficoltà a sapere cosa si deve fare della nostra vita che addossare la sua riuscita o il suo fallimento a qualcosa di inafferrabile come Giove, i Pesci o il misterioso (e affascinante) Capricorno.
Sempre più spesso ci si conosce, ci si presenta, poi, non appena entrati in confidenza (ma appena appena) quello, proditoriamente, mi chiede: “E tu, di che segno sei?”.
Prima prendevo la domanda sul serio e, per non creare polemiche, rispondevo: “Del Toro” (poiché fin da piccolo mi era stato detto che, essendo nato in Maggio, era quello il segno che sovraintendeva al mio destino), ma quando ho visto che questo gli dava la possibilità di ribattere di volta in volta con un : “Fantastico! Anch’io sono del Toro!..... (ecc. ecc.)” o un: “Peccato! L’Ariete e il Toro non si incontrano (ecc. ecc.)” o, peggio ancora, con un erudito: “Vediamo un po’. Il Toro è ambizioso ma anche generoso e comunque un tantinello narcisista… (ecc. ecc.)” o un perentorio: “Allora sarà dura! Io sono un Acquario!”, allora, dicevo, ho deciso di cambiare tattica e rispondo, sicuro e deciso: “Della Narda”.
Se quello fa finta di niente per non alimentare risposte che presume (a ragione) ironiche e dissacranti, la conversazione sui segni finisce lì, ma se invece chiede (non c’è bisogno che parli, basta la sua aria interrogativa): “O che razza di segno è?”, allora ribatto, con noncuranza: “E’ un segno dello Zodiaco senese. Uno dei più ambìti.”
Se però (càpita di rado ma può accadere) mi decido a prendere la questione oroscopo un po’ più sul serio, comincio col citare la famosa frase di Leonardo da Vinci (che disse di aver smesso di credere nell’oroscopo dopo aver controllato la data di nascita dei caduti nella battaglia di Campaldino) e, se ciò non è ancora sufficiente a insinuare nella mente del mio interlocutore una certa possibilità che i segni zodiacali possano essere inaffidabili nel determinare il successo o il fallimento degli umani gli sferro in piena faccia la Madre di Tutte le Prove:
“Ma poi, senza andare a Leonardo; lo sai che Berlusconi e Bersani celebrano lo stesso compleanno? Sono nati entrambi lo stesso mese e lo stesso giorno. Hanno entrambi lo stesso identico segno! Chissà che diceva il loro oroscopo il giorno delle Elezioni Regionali. O quello delle Europee. O il giorno delle Consultazioni Amministrative”.
L’altro a volte si mostra pensieroso; spesso scuote la testa e la pianta lì. Altri invece niente: come non avessero sentito; duri come le pine verdi. Perché l’oroscopo per loro è come una fede; o ci s’ha o non ci s’ha e loro ce l’hanno (oh se ce l’hanno!) e guai a chi si permette di mettergliela in dubbio. E così continuano a confidare su Venere, Giove, Plutone, Urano, il Sole e tutto il loro strambo bestiario: l’Acquario,  il Cancro, lo Scorpione, l’Ariete e così via. C’è anche la Vergine (e mi chiedo che speranza abbia lei, sola soletta in mezzo a tutti gli altri segni dello Zodiaco; i Gemelli non sono ancora svezzati e da quella parte, c’è poco da sperare…).
Io, da parte mia me ne frego. Mi basterebbe solo che la Narda mi fosse un po’ benigna e sono certo che la vita tornerebbe a sorridermi (e scusatemi se poi dico di non credere all’Oroscopo…).

Non solo Gargamella

domenica 19 settembre 2010

“O Biri, o che cosa ti succede?” ha esordito con domanda perentoria e misteriosa Dario, quando, dopo una vita, l’ho rivisto alla fermata dell’autobus.
“Dario, amico mio, mi succede cosa? Chiarezza, prego” ho risposto un po’ piccato perché non avevo trovato niente di più intelligente per controbattere (lo sapevo infatti, a cosa, il bischero, si riferiva).
“Ma come? Seguo il tuo blog per godere delle tue trovate, delle tue impertinenze, delle tue dissacrazioni (anche politiche, sì, soprattutto contro quella che tu ritieni la mia parte), delle tue arguzie verbali pittoresche ma sempre divertenti e ieri che ti trovo? Un pistolotto a metà tra la predica e la confessione esoterica con morti che parlano, cipressi che si muovono e tutta una serie di confessioni religiose che mi hanno lasciato di stucco. Stai invecchiando? Hai sentito le voci? Che diavolo significa?”
Ho dovuto spiegare a Dario che un blog che si rispetti (e anche un uomo che si rispetti) non deve focalizzarsi solo su un aspetto dei mille motivi che circondano, arricchiscono, complicano e intrecciano la nostra esistenza.
“Vedi, amico mio” gli ho confidato “di tutte le miriadi di notizie inutili che intralciano, appesantiscono e rendono le nostre giornate un po’ meno degne di essere vissute, quelle provenienti dal mondo (anzi, dal “teatrino”) della politica, sono le più spassose, se viste sotto la giusta angolazione (eliminando subito il fatto che si possano prendere sul serio) che è quella della gioiosa “presa per i fondelli” di coloro che appartengono (magari vantandosene, i bischeri!) a quel mondo. E di tutti quelli che lo meritano (quasi tutti), i più meritevoli sono, guarda caso, proprio quelli che tu definisci “la tua parte”. I comunisti, insomma, o, se questa parolina di cui una volta ci si vantava (loro, intendo) ora, a dirla, si rischia di offendere qualche repentina suscettibilità chiarisco meglio che i signori in questione sono i progressisti, gli illuminati, i tolleranti, i democratici insomma. Sono quelli che per decenni ci hanno dato a bere, e continuano imperterriti, anche se ora molti cominciano a rifiutare di sorseggiare le loro tisane, che solo loro sono sempre e comunque “dalla parte giusta”, che solo loro possiedono, promuovono, comprendono e praticano la “Cultura”, che solo loro hanno i mezzi e le carte in regola per interpretare la “Storia” e che solo loro hanno la ricetta giusta per tutti i mali, piccoli o grandi che possano affliggere un Paese.
Così per anni hanno imperversato monopolizzando quelli che ormai considerano i loro “territori” di caccia, i grandi spazi sociali che gli altri, spaventati da ciò che “gli illuminati” potessero fare, hanno loro lasciato: le grandi praterie del consenso che si chiamano Educazione (Scuola, Università ecc.), Lavoro (Organizzazioni Sindacali, Aziende Statali ecc.), e ancora Editoria, Grande Distribuzione, Magistratura e via col liscio.
Ovvio che, alla fine, poiché loro non cambiano ed il mondo invece sì, alcuni nodi sono venuti (e vengono, sempre più spesso) al pettine. E così emerge (faticosamente, ma emerge) che la loro Storia è perlopiù composta di Miti e Luoghi Comuni inamovibili e che la loro Cultura tanto sbandierata è una sottocultura al servizio della loro stessa ideologia, una Cultura vecchia, funzionale, utilitaristica ed autoreferenziale che dà origine a spettacoli tragicomici. Per esempio, nel Cinema (una delle discipline culturali che mi hanno sempre interessato) si può arrivare al punto in cui produttori di sinistra (grazie a finanziamenti pubblici erogati in base a leggi votate, a suo tempo, dalla sinistra), sulla base di una sceneggiatura di sinistra (ovviamente politically-correct e tratta da un romanzo di uno scrittore di sinistra), commissionano film a registi di sinistra che si avvalgono di staff tecnico e attori di sinistra. Il film viene recensito positivamente nei giornali di sinistra, vince premi nei festival presieduti da giurati di sinistra e viene infine proiettato (pressoché esclusivamente) nei cinema d’essai (non in tutti ma quasi: quelli in mano alla sinistra). I giornali ispirati alla sinistra (primo fra tutti il giornale-partito della sinistra: La Repubblica), ovviamente sprecano piombo e spazio nelle loro pagine culturali per recensire entusiasticamente il film in questione.
La gente normale, di solito, questi film non li va a vedere e, se vi viene costretta da alcune circostanze (ripararsi dalla pioggia, il desiderio di far colpo su una persona, la voglia di sentirsi un po’ meno cretino di quanto gli altri cretini, quelli di sinistra, lo giudicano), esce poi dalla sala incazzata, annoiata e triste (semplicemente: non saprebbe descrivere cosa ha visto). Se ha visto il film di pomeriggio, la sera a cena, litiga con la moglie (anche lei arrabbiatissima per averlo dovuto accompagnare ed essersi dovuta sorbire quella che, considera come una “cagata” indescrivibile), se invece ha visto il film dopo cena, quando si corica viene colpito da tremendi sensi di colpa (per essere andato a vedere quella boiata) e dorme un sonno tormentato dagli incubi.
 Ricordo al riguardo i micidiali film di Antonioni, uno dei più sopravalutati registi del dopoguerra (insieme ad altri riferimenti della sinistra come Petri, Bellocchio, Bertolucci ecc. ecc.). Questo regista, dopo un esordio onorevole cadde in preda alla paranoia (o a qualcosa di più serio che non si è ancora riusciti a scoprire) e, uno dopo l’altro, sfornò una serie impressionante di film che definire demenziali è far loro un complimento. Ma il tizio era nelle grazie della sinistra, quella più pericolosa, quella che gestiva le pagine culturali dei grandi quotidiani e le riviste di critica cinematografica. Ebbene, lì cominciò la beatificazione di Antonioni. Pagine e pagine di articoli, di dibattiti (“culturali” ovviamente), sulla “rappresentazione cinematografica dell’incomunicabilità”, sui rapporti di coppia nella società del boom economico e tante fregnacce similari, fecero di tre o quattro dei film più pazzeschi della storia della cinematografia italiana, dei capolavori.
Oggi, nessuno sano di mente si arrischierebbe, se non fisicamente costretto, ad assistere (e non per più di due, tre scene) a tali “capolavori” (mi riferisco a film come “La notte”, “L’eclisse”, “L’avventura”, opere che, all’epoca, fecero incetta di premi e suscitarono critiche entusiastiche e incomprensibili da parte di tutti i guru dell’intellighenzia cinematografica nostrana, “Cinema Nuovo” e Aristarco in testa), tanto è vero che oggi non si trova nemmeno un editore che abbia il coraggio di riproporli in DVD o un canale televisivo che si attenti a mandarli in onda, nemmeno a notte fonda (escludendo forse Ghezzi in “Fuori Orario” su Rai 3; ma Ghezzi, si sa, è sempre fuori-sincrono). Quanto al micidiale “Deserto rosso”, la sua visione integrale, se proposta ad una singola persona può essere considerata come “tortura”; se proiettata davanti a centinaia di persone: “arma impropria di distruzione psicologica di massa”. Le rarissime bobine rimaste sono conservate in un luogo segreto da parte dell’antispionaggio ad evitare che, se cadute in mano di terroristi, possano da costoro essere usate “contro la sovranità e la sicurezza dell’Occidente”.
Ebbene, quei film la sinistra li esaltava. E lo stesso succedeva e succede anche oggi per quanto riguarda la letteratura, la poesia e le arti figurative: la sinistra, depositaria nazionale dell’Arte e della Cultura è sempre, o in ritardo o fuori bersaglio. Ovvio che, essendo questo il contesto, è proprio la sinistra che mi interessa di più, è lei che stimola e nutre le mie umili velleità satiriche. E’ comunque niente più che un divertimento, uno scherzo che mi illudo possa aiutare la mia mente a restare sveglia e vigile; niente altro.
Ma i grandi interrogativi, quelli che prima o poi sorgono in ognuno di noi (e a me è un po’ di tempo che questo succede) sono ben altri. E a questi non si può rispondere con un’alzata di spalle, voltando la testa da un’altra parte o buttandola sullo scherzo. Qui non si scherza. Qui è in ballo semplicemente “tutto”.
E da ora in poi, mio caro amico, mi occuperò a tempo pieno ed un po’ anche su questo blog (se al Mulinacci, che me lo gestisce, non dispiace) di questi temi, magari trascurando per un po’ l’avvenenza della Bindi, le diatribe tra Gargamella e Franceschiello e le smorfie di Di Pietro, il sintassiclasta. E’ venuto il tempo di pensare a me, e anche a te e a tutti gli altri. E’ venuto il tempo di riflettere; e non c’è più la voglia di qualche tempo fa per prendere in giro certi personaggi che ci si prendono benissimo da sé. Basta guardarli.”


Siamo andati a prendere un caffè insieme e di questo, per oggi, non abbiamo più parlato.

La passeggiata pomeridiana

martedì 14 settembre 2010

Dopo aver pranzato, ogni giorno, esco a fare una passeggiata. Di regola sto fuori un'oretta o poco più, e vago senza una meta, con un certo passo corto e lesto che mi illudo possa aiutarmi a digerire meglio, spesso con la macchina fotografica a portata di mano caso mai capitasse qualcosa di insolito (o memorabile) da immortalare.
Da un paio di anni però le mie uscite pomeridiane sono cambiate; non è che durino di meno o che le svolga ad un passo più blando: sono cambiate perché il loro scopo è cambiato. Per esser chiaro: non esco più, come prima, per digerire o per fare del moto salutare; esco per onorare un appuntamento. Direte (maliziosi): e con chi ce l'avresti 'sto appuntamento, sentiamo un pò? Un pochino di pazienza, amici e arrivo subito a svelarvi il mistero (posto che si tratti di un mistero). Dunque: tutto cominciò un caldo pomeriggio d'estate, due anni fa.
Quel giorno decisi (senza un motivo preciso, mi par di ricordare) di cambiare itinerario e, desideroso di silenzio e di pace, pensai di andare a fare una visita al cimitero comunale. Al cimitero, in effetti, non ci si va quasi mai e quando ci capita o è per l'annuale ricorrenza dei Defunti o per ricordare, con un triste commiato, un conoscente o una persona cara. C'è poi un'altra occasione in cui (tutti) andremo a far visita al cimitero, ma, benché certa e, per quanto risieda nella nostra volontà, improcrastinabile e di durata assai più lunga della nostra stessa vita, si tratta a nostro avviso di un evento che consideriamo (da vivi) lontano, nebuloso, misterioso e così impalpabile che non lo riteniamo degno di catturare la nostra attenzione per un tempo che superi quello di un angoscioso brivido, inspiegabile, improvviso e deterrente al punto di impedirci di proseguire oltre in quel tale ragionamento.
Il pomeriggio era caldo e la strada assolata e deserta; passai dal portone che introduce al cimitero quasi con sollievo, pensando che avrei potuto godere del refrigerio che pervade i corridoi laterali del grande atrio. Traversai il piazzale, entrai sotto l'arco che introduce ai portici con le cappelle mortuarie e cominciai a percorrerlo. Passando osservavo le cappelle con i monumenti funebri e le tombe dei defunti; mi impegnai a cercar di memorizzare i nomi più strani ed insoliti. Un'altra occupazione che trovai (non avevo niente di meglio da fare) era quella (ricordo) di annotare mentalmente le date di nascita e di morte per calcolare l'età del trapassato. Passavo il tempo senza annoiarmi, così, dopo aver visitato le cappelle sotto i portici, scesi nei sotterranei e poi di nuovo all'aperto, traversando i campi pieni di lapidi e di croci, salendo e scendendo per le colline piene di sepolcri, errando tra i morti, ancora osservandone i nomi, a casaccio, ancora a calcolarne l'età del decesso.
Beh, pensai, ce n'erano di nomi strani, specie tra le donne: Eurasia, Elpidia, Bea, Urania, Idomenea, Scilla.. e chissà quanti altri dei quali non mi ricordavo.. E le età? Quasi tutti erano morti tra i settanta e gli ottant'anni anche se c'erano rassicuranti vegliardi che avevano dato l'addio alla vita terrena oltre i novant'anni. Avevo trovato anche qualche centenario e, bellissima notizia (tale la considerai, chissà perché poi...), non avevo trovato nessuna tomba che portasse il mio mese e giorno di nascita.
Erano quasi due ore che, come un maniaco (o un cretino), vagavo tra le tombe e, poiché mi sentivo un pò stanco mi sedetti su un'opportuna panchina che  mi aspettava proprio là, al bordo del vialetto che divideva le sezioni del cimitero, all'ombra, pronta per me.
Mi sedetti, respirai profondamente, mi guardai intorno... dove mi trovavo? Perché ero in quel posto? Cosa mi aveva condotto lì? Da ogni parte croci, angeli, fiori, marmi.. l'orizzonte non era che una sequela di cappelle dalle forme più varie e fantasiose interrotta dall'alta struttura in mattoni della chiesa del camposanto e dalla bassa cornice circolare dei due porticati; in alto, lente e impassibili, scorrevano alcune nuvole svagate.
All'improvviso e senza nessuna giustificazione i miei pensieri presero una direzione inaspettata; mi trovai a trattenere il respiro, a tendere le orecchie, a cercar di allontanare da me i lontani rumori che provenivano dalla città. Dovevo pensare. Qualcosa di luccicante mi era passata accanto, qualcosa di incredibilmente sconvolgente mi costringeva (con soddisfazione, con gioia!) a non abbassare la guardia, a cercar di trattenere quel palpito di ragionamento che per un attimo aveva scossa l'indolente apatia di quella giornata calda e noiosa.
Mi concentrai; feci appello a tutte le forze ineffabili della mia memoria. Avevo pensato: questa gente mi guarda, mi osserva, mi giudica, mi chiama. E anche: sono qui, fra i non-vivi, sono qui fra gli immortali.
La mente ora prese il largo. Sentivo di essere prossimo a qualcosa, ad un ragionamento antico ma misterioso. Pensai: tutti questi defunti sono in attesa di qualcosa. E la parola nacque spontanea dallo stesso ragionare. Resurrezione.
E vidi con chiarezza disarmante, ed esaustiva che la nostra natura stessa è quella di una comunità in attesa di un Evento, e che l'Evento è talmente certo che ignorarlo o negarlo sarebbe una specie di provocazione così insincera e sprovveduta che solo la malafede avrebbe potuto ispirarla.
L'Uomo tende all'immortalità, pensai. Riflettei che: "Se non pensassimo di essere in qualche modo immortali non varrebbe nemmeno la pena di vivere". E vidi i milioni di trapassati che, a partire dalla preistoria, prima di pensare a lasciar testimonianze storiche o artistiche o civili, si erano preoccupati a costruirsi una casa per l'Aldilà. Le prime testimonianze di una civiltà sono i segni della fiducia sulla rinascita da quella che chiamiamo impropriamente Morte. E che siano Piramidi (Egiziane o Atzeche), Necropoli, Catacombe, tumuli o sepolcri di ogni forma e dimensione, famosi e celebrati o senza nome e senza tempo, ognuno di quei manufatti, fin da quando l'Uomo ha dato segni di sé in ogni terra, in ogni età e in ogni cultura, spiega e dimostra, meglio di qualunque speculazione pseudoscientifica o "verità" agnostica, come la fede nella risurrezione sia innegabilmente inglobata nel nostro stesso essere. Fa parte di noi, "è" noi, ci distingue dagli altri esseri viventi, è evidente e tangibile e negarla è un atto inutile, anzi, più che inutile: criminale (perché nega la vita, quella futura).
Tutti i miliardi di uomini e donne che in ogni epoca hanno vissuto la loro travagliata vita terrena, giacciono ora (pensavo) qui, intorno a me e in ogni altra parte del mondo, immobili, pazienti, fiduciosi; gli occhi chiusi volti in alto trascorrono la loro esperienza di non-vivi nell'attesa della risurrezione. E del Giudizio.
Se l'intero genere umano, fin dalla propria venuta sulla terra, ha sempre ipotizzato (in mille modi e con mille giustificazioni diverse) la vita al di là della morte, vuol dire che questa non è una semplice credenza, non è una eventualità di poco conto da liquidare come una speculazione filosofica sconfinante nell'esoterismo. Significa che la vita al di là della morte fisica può esistere. E quindi ESISTE. E' possibile, è a portata di mano. E' talmente possibile che un Uomo l'ha sperimentata e ci chiede continuamente (poiché vive e opera accanto a noi) di credere a quello che abbiamo visto e sentito; di non chiudere gli occhi e di non tapparsi le orecchie. Non siamo noi a non voler vedere e a non voler sentire; non siamo noi a non voler credere in Lui (e quindi nell'immortalità). E' l'Altro, il Principe del male che regna in quel mondo in cui siamo stati esiliati per espiare una colpa immane; è lui che ci chiede di non vedere ciò che splende e di non sentire ciò che grida.
Io non credo che a ciò che vedo e a ciò che sento; ecco perché credo in un Dio che ci ama e in Gesù Cristo, suo Figlio, che è venuto sulla Terra a morire e a risorgere per aprirci le porte dell'immortalità.
Pensavo questo e molto più di questo e per la prima volta vedevo chiaramente ciò che fino ad ora (intuendolo) tenevo pervicacemente nascosto, quasi vergognandomene. I non-vivi, tutt'intorno a me, annuivano; e certo non in silenzio. "Hai capito anche tu, finalmente" dicevano e le loro parole formavano quasi un brusìo vegetale (no, non era il vento che faceva vibrare i cipressi) che era una brezza corroborante per l'anima.
I non-vivi mi hanno insegnato che non si può morire veramente: le porte di una eternità inimmaginabile si aprono dietro la spinta (dolce, ma decisa) di una sublime certezza.
"Se Dio mi ha dato i sensi per sperimentare il mondo intorno a me, ed una mente in grado di elaborare tutte le informazioni che mi giungono da ogni dove perché devo autolimitarmi riducendomi a negare l'unica verità inconfutabile che determina il futuro dell'intero genere umano?" riflettevo.
Da quel giorno la mia passeggiata pomeridiana ha per meta il cimitero. I non-vivi hanno sempre qualcosa di interessante (per usare un aggettivo comune) da dirmi.
Le banalità, le lascio dire a chi non ha altro da raccontarmi.