Missione del blog

Il Biri, il socio più anziano titolare della celebre Agenzia (*), ha l'abitudine, da anni, di annotare i suoi pensieri, le sue osservazioni e gli avvenimenti che gli accadono (anche i meno memorabili) in un taccuino che non mostra a nessuno e del quale è gelosissimo.
Ora, avuto il permesso di visionarlo, l'ho trovato per certi versi interessante (come tutto quello che concerne il Biri) e gli ho chiesto perché non lo pubblicasse in un blog. Impresa disperata: il Biri non sa usare nemmeno il telecomando del televisore, figuriamoci il computer! Impietosito ho deciso di aiutarlo e pertanto ecco qui il blog con le pagine del taccuino del Biri che potrete leggere e commentare ricordando sempre che il sottoscritto non si prende alcuna responsabilità del contenuto essendo il suo contributo solamente quello di una collaborazione tecnica e poco più.


Per saperne di più, leggere il post dal titolo: Ouverture.
R.M.

(*) L'Agenzia di Ascolto e Collaborazione Morale della quale parlerò appronditamente in un prossimo futuro su queste pagine.

Roberto Mulinacci

Pasquetta e Resistenza

martedì 26 aprile 2011

Dice Michele : “Roba da chiodi! Anche questa storia della Pasqua valla a capire! E’ l’unico caso di un Anniversario che viene celebrato in una data incerta! Ma come si fa a festeggiare un avvenimento che già è di per sé, diciamo, estremamente improbabile (per non dire incredibile, o assurdo, almeno per chi non ha la fede) e che, perdipiù, non si sa nemmeno in quale giorno si è verificato? Se chiedi ad un prete – Padre, per favore mi può dire in che giorno risorse Gesù? – quello comincia a menartela con tutto un giro di parole nel quale entrano cabale, solstizi, fatti aleatori e concomitanze celesti e alla fine ti dice che non si sa. Punto. I Vangeli non chiariscono il problema. E così tocca guardare le effemeridi, l’asse terrestre, il moto di rivoluzione della Terra e poi concludere che la Pasqua cade ogni anno in un giorno diverso, che quindi si festeggia sempre in una domenica diversa e che quindi anche il giorno di Pasquetta viene sempre in un lunedì diverso”.
Pausa. Sospiro. Poi prosegue: “Io quest’anno la Pasquetta non ho potuto nemmeno festeggiarla come si deve. Con la classica gita fuori porta con la famiglia voglio dire, con il picnic, la pennichella ed il ritorno nel maxi ingorgo stradale che caratterizza questa ricorrenza. Accidenti!”.
Lo riprendo amichevolmente (Michele si abbatte con facilità):
“Michele mio, ma come pensavi che i Vangeli potessero indicare quel giorno; il giorno della Risurrezione di Gesù? Non potevano certo dire, che so: “Ed il ventiquattro Aprile il Cristo risorse.” Il ventiquattro a partire da che? Aprile cosa? E in che anno? Il calendario non c’era Michele mio perché gli anni, i mesi ed i giorni come li intendiamo furono elaborati e modificati innumerevoli volte nel corso dei secoli successivi. Loro ti davano il riferimento, e preciso per giunta; siamo stati noi che, avendo cambiato le carte in tavola con Giulio Cesare e poi col Papa Gregorio Magno ora ci troviamo a non riuscire più a far coincidere quell’avvenimento con i giorni come ce li siamo inventati. Ma perché non sei riuscito a festeggiare la Pasquetta? Per il tempo? Un po’ di pioggia è caduta ma niente che potesse rovinare una festa, a mio avviso”.
“Biri, che cavolo c’entrano la pioggia ed il tempo? Non ho potuto festeggiare la Pasquetta con la famiglia perché, grazie al famoso lunedì variabile (mi ha guardato come a dire: hai voglia a difenderli tanto la colpa è tutta dei preti) quest’anno la Pasquetta è coincisa con la Festa della Liberazione dai tedeschi. E se permetti, noi partigiani (qui ha alzato la testa e la voce) che abbiamo combattuto per liberare l’Italia dallo straniero, la festa della Liberazione, della nostra Liberazione, la festeggiamo. E non c’è Pasquetta, con la famiglia o senza e con o senza picnic, che tenga”.
E’ bello, fiero, quasi patetico nel suo furor d’amor patrio e, su due piedi, non me la sento di controbattere.
Ma poi, passato qualche minuto e tornati alla normalità del nostro solito conversare non posso fare a meno di chiedergli:
“Scusa Michele, ma devo farti una domanda. Tu prima hai detto: - Noi partigiani – ma, mi sbaglio o hai, come hai sempre avuto, la mia stessa età? E se hai, come hai, sessant’anni, come fai a dire di essere stato partigiano e di aver combattuto per la Liberazione? Fammi capire”.
Un lampo di fierezza gli passa nello sguardo tornato fiero come poco prima.
Mi guarda senza rispondere, poi, infilata una mano nella tasca interna della giacca ne estrae il portafoglio che comincia ad esplorare attentamente in tutti i suoi scompartimenti. Dopo un minuto, un grido di trionfo: “Eccola!” e, lentamente, quasi religiosamente mi sbatte sotto il naso qualcosa di bianco-rosso e verde. “Guarda qui, se non ci credi!” sbotta con l’aria di chi ti mette con le spalle al muro. E’ una tessera; una tessera come tante altre si potrebbe dire a prima vista ma per Michele, evidentemente, è una tessera assai speciale. Sul davanti c’è scritto “A.N.P.I.” e sotto, per esteso “Associazione Nazionale Partigiani Italiani”. Sul retro, riportato in stampatello, c’è il nome del mio amico e lo spazio con i bollini dei pagamenti annuali. Ce ne sono molti; posso leggere l’ultimo: Anno 2011.
“Allora sono o non sono un partigiano? Mi credi o no, adesso? Non c’entrano niente gli anni che si hanno o non si hanno, c’entra solo se hai la tessera e se hai pagato la quota annuale. Io l’ho pagata; guarda: 2011!” e mi fa vedere quello che ho già visto.
Non me la sento di controbattere. Se Michele vuole essere partigiano, che lo sia. Mi dice che quel lunedì ha partecipato alla manifestazione per la difesa dei valori della Resistenza ed ha sfilato davanti ai capi dell’ANPI tra i quali c’erano anche alcuni (pochi, pochissimi ormai) partigiani “veri”, con o senza bollino. Naturalmente non è potuto andare con la famiglia a fare la gita fuori porta, come ogni altro anno, ma questo a Michele non importa. Lui è felice così ma io, che ho trascorso la Pasquetta come sempre (gita, picnic, ingorgo) non l’ho invidiato anche se, documenti alla mano, lui può dimostrare di essere proprio un partigiano ed in regola, per giunta.

BIRI RUNNER - Incoherentia italica -

sabato 23 aprile 2011

Ho visto cose che voi umani nemmeno vi immaginate…”

… ho visto un giovane italiano abbandonare il proprio Paese e la propria famiglia per andare in Palestina a perorare la causa dei palestinesi contro gli israeliani.
Si comportava come un fanatico oltranzista; il suo odio contro Israele era immenso, il suo amore per la causa palestinese, sviscerato.
E’ stato ucciso da altri palestinesi, più integralisti di lui, che dopo averlo rapito, lo hanno picchiato selvaggiamente, mostrato in televisione e quindi strangolato.
La mamma ha chiesto che la salma del figlio fosse riportata al più presto in Italia, possibilmente in aereo, ma a condizione di “non” sorvolare lo spazio aereo di Israele.
Ha detto che lui (ucciso da palestinesi, ricordiamolo) odiava talmente Israele che i suoi ideali si sarebbero corrotti anche dopo morto, solo sorvolando quella terra così disprezzata.

La richiesta della madre è stata accolta: la bara ha dovuto quindi seguire un lungo e tortuoso percorso che attraverso l’Egitto l’ha portata in Italia con diversi giorni di ritardo: gli ideali erano salvi….

… ho visto un Paese invaso dai nordafricani e, incapace di arrestarne l’invasione, cercare di risolvere il problema “alla furbina”  stampando cioè in fretta e furia centinaia di permessi di soggiorno pochissimo controllati e definiti “provvisori” (che in Italia vuol dire: “definitivi”) e consegnarli agli increduli clandestini al fine dichiarato di permettere loro di andarsene altrove… salvo ritrovarseli poi, respinti o non respinti alla frontiera,  tutti ammassati per le strade, nelle piazze, nei cortili, nelle stazioni, davanti ai semafori, nei sottopassaggi, nelle case sfitte, nelle caserme e nei centri di accoglienza e questa volta assolutamente “in regola”…

… ho visto il Governo approvare una legge per sospendere “sine die” la costruzione di centrali nucleari salvo vedersi attaccare dall’opposizione che si batteva per lo stesso scopo ma che, dovendo disdire il referendum che aveva indetto sulla questione, si sente tradita perché non può più dire di essere stata lei a costringere lo stesso governo a fare marcia indietro…


ho visto cose che voi umani….”

Biri

PROBLEMA: "Il lavandino"

mercoledì 13 aprile 2011

Dato che il nostro lavandino ha la capacità di 10 litri d’acqua e ne contiene già la metà;

considerando altresì che dal rubinetto fuoriescono 5 decilitri all’ora e che dallo scarico del lavandino vengono smaltiti 2 decilitri d’acqua ogni due ore, l’allievo ci dica:

1 a) Quanto tempo impiegherà il lavandino, restando immutate le cose, a riempirsi completamente d’acqua e a lasciarla traboccare sul pavimento?

2 b) Di quanto occorrerebbe aumentare la portata dello scarico (o di quanto occorrerebbe diminuire l’apertura del rubinetto) per lasciare immutata la quantità d’acqua presente nel lavandino?

3 c) Dica altresì l’allievo se e come sarà possibile ridurre la quantità d’acqua nel lavandino aumentando il flusso di liquido che fuoriesce dal rubinetto e nello stesso tempo diminuendo la portata dello scarico.

L’allievo ha a disposizione due anni, massimo tre, per risolvere il problema. E’ severamente vietato avvalersi di metodi razzisti e/o  xenofobi. Allo scadere del tempo accordato agli allievi che non avranno risolto il problema saranno comminati 50 colpi di frusta (le donne invece, saranno lapidate).

LA SOLIDARIETA’

domenica 10 aprile 2011


Dario era preoccupato, quella mattina. Me ne sono accorto non appena l’ho incontrato. Ho ascoltato attentamente cosa lo angustiava (aveva appena finito di leggere il giornale) poi ho provato a rincuorarlo:
“Dario, ma cosa vai a pensare? Proprio tu ti preoccupi per i continui sbarchi di clandestini? Ma non lo sai che Bersani ha detto (e non dirmi che non apprezzi Bersani) che i clandestini: “sono una risorsa per il nostro Paese”? E non lo sai che Napolitano (Napolitano! Mica un bischero qualsiasi..) ha lanciato “l’alto monito” a non reagire “con allarmismi e vittimismi” agli arrivi di nordafricani sulle nostre spiagge? E che Berlusconi (Berlusconi; il leader del centro-destra!) ha detto che l’Italia non può respingere nessuno poiché “siamo un Paese civile e cristiano”? E che il Papa ha detto che “bisogna accogliere tutti coloro che bussano alla nostra porta”? E che la CGIL ha detto che “chiunque venga da noi ha diritto a rimanere finché vuole (finché vuole!)”? E che D’Alema ha detto che “l’Europa per sopravvivere ha bisogno di 30 milioni di africani (Trenta milioni!)”? E che Casini ha detto che “non si può respingere nessuno”? E così la CEI, i Centri Sociali, Santoro, il Popolo Viola, il Movimento Cristiano dei Lavoratori, i Girotondini, i Disoccupati Organizzati, i Grillini, la Littizzetto, eccetera, eccetera? Se lo dicono loro che bisogna stare tranquilli non vedo perché tu dovresti preoccuparti. Càlmati. Se dicono che bisogna accogliere tutti, diamoci da fare per accoglierli; dirò di più: impegniamoci a farli sentire come fossero a casa loro, come facenti parte di una grande famiglia; dimostriamo loro il nostro amore e la nostra riconoscenza per essere venuti così numerosi e a prezzo di tante sofferenze per darci una mano. Sono o non sono (dicono i progressisti, e non solo) “una grande risorsa”?”

Dario mi ha guardato storto. Sentiva che nelle mie parole c’era qualcosa che non andava.

“Ma che cavolo dici, Biri? Vuoi darmi ad intendere che non solo non sei incazzato per l’invasione dei magrebini, ma sei perfino disposti ad aiutare queste persone? Ma chi cerchi di fregare! Proprio tu, che vorresti ricacciarli a mare!”

“Calma Dario, calma. Innanzitutto ognuno ha diritto a cambiare idea e comunque io ce l’avevo (prima di convertirmi al pensiero di D’Alema, Napolitano, Berlusconi e compagnia) solo con i clandestini e non certamente con i profughi, quelli veri. Ebbene, ora mi sono ravveduto. Se tante persone importanti come tutti i nostri governanti dicono che bisogna accogliere, vestire, nutrire e curare tutti questi maschi senza passaporto, e che bisogna altresì farli divertire, dare loro una paghetta settimanale per i vizietti, farli viaggiare gratis, trovar loro il modo di poter fare sesso, rispettare i loro usi e le loro leggi, fornire loro un luogo dove professare la propria religione, non offenderli con i simboli della nostra e non infastidirli con il nostro modo di vita, ebbene, io mi adeguo. E dovresti farlo anche te, Dario” ho concluso guardandolo severamente.

Lui ha taciuto; non sapeva se scherzavo e se dicevo sul serio. Qualcuno è venuto in mio aiuto dandomi l’opportunità di dimostrare al mio amico la sincerità di quanto avevo appena espresso.

Era un giovane dalla carnagione abbronzata, i capelli ricci, gli occhi neri ed una espressione triste e sfigata; dimostrava poco meno di trent’anni. Indossava jeans e giubbotto ed ai piedi portava un paio di scarpe da ginnastica: “Puma” mi sembra di ricordare. Aveva appena finito di fare una telefonata col cellulare quando ci si è avvicinato.  Per sua fortuna (dato quello che avevo appena detto riguardo a lui e a quelli come lui), si è rivolto proprio a me:
“Amico. Tu aiutare me. Io niente soldi. Io profugo; viene di Tunisia” ha detto.

“Come no! Ma ci mancherebbe altro!” ho subito ribattuto facendo sgranare gli occhi a Dario che non si capacitava; “Cosa posso fare per te?” gli ho chiesto per capire meglio le sue esigenze.

“Dare soldi. Carica telefono” ha fatto quello facendomi vedere il telefonino (uno dell’ultima generazione).

“Ah, ho capito. Devi ricaricare il cellulare. Non ti preoccupare, ci penso io. E oltre alla ricarica, posso fare dell’altro per te?” gli ho chiesto, premuroso come D’Alema meglio non avrebbe fatto.

Il tunisino, probabilmente toccato da tanta compartecipazione, non se l’è lasciato dire due volte:
“Volere fumare. Sigarette. Manca sigarette” ha detto facendo l’atto di portarsi una sigaretta alle labbra.
“Ero sicuro che c’era qualche cos’altro che ti avrebbe fatto comodo! Allora, badiamo un po’: un ricarica telefonica di.. diciamo di 50 euro?” quello ha fatto di sì, con la testa. “E poi, vediamo un po’.. facciamo altri 20 euro per le sigarette?” sì, sì, annuiva quello, tutto serio, con gli occhi tristi come prima.

“Insomma con settanta.. anzi meglio.. con 100 euro, saresti a posto. O sbaglio?” Sì sì, annuiva quello col capo, come a dire: sarei a posto. Dario osservava.

“Benissimo” ho fatto io. Mi sono messo la mano in tasca; ho frugato. L’ho ritirata, vuota. Ho cercato nelle tasche dei pantaloni, nelle tasche della giacca, poi in quelle interne, poi nel taschino. Niente soldi. Poi ho guardato nel borsetto. Non ho trovato niente.
Alla fine mi sono arreso.

“Senti” gli ho fatto (aiutandomi con la mimica perché quello sembrava non capire bene l’italiano) “Ora io non soldi. Ma andare subito prendere per te. Andare bancomat, prendere soldi per ricarica (ho mimato uno che telefona) e per sigarette (ho fatto il verso di uno che fuma) e portare qui a te. Adesso andare a fare passeggiata (puntata la mano in basso ho agitato l’indice ed il medio per dire “passeggiata”), poi prendere soldi (ho sfregato il pollice sull’indice della mano) e quando tornare, io (mi sono battuto l’indice sul petto) dare te (con l’indice ho indicato lui) cento euro. Sei contento?” gli ho chiesto.

Quello non ha risposto. Non aveva capito la fortuna che gli era capitata?

“Fra un’ora, io tornare qui e dare te soldi” gli ho ripetuto. Poi mi è venuto un dubbio atroce:
“Io trovare te qui fra una ora?” gli ho chiesto, preoccupato. E se non lo avessi più trovato? Il nordafricano ha annuito lentamente; poi ha guardato Dario, poi di nuovo me. Forse non aveva realizzato: era la sua giornata fortunata! E si dice che gli italiani non sono ospitali. Il Berlusca, Napolitano, Bersani, D’Alema, il Papa e tutti quanti potevano essere fieri di me. Quale altro cittadino di quale altro Stato avrebbe dimostrato la stessa solidarietà del sottoscritto?

Lasciato il clandestino ad attendermi dove l’avevamo trovato, abbiamo proseguito la nostra passeggiata. Dopo cinque minuti di silenzio Dario ha sbottato:
“E ora, Biri, vorresti dirmi che darai cento euro a quel clandestino? Ma che credi che non ti conosca? E smettila con queste buffonate!” ha sbottato; ma era allegro. Era quello che volevo.

Non gli ho risposto. Dopo un minuto abbiamo cominciato a parlare delle solite cose di sempre: il campionato, le elezioni, le donne, il tempo, le vacanze, la famiglia, questo e quello.

Quando è giunto il momento di salutarci, Dario non si è lasciata sfuggire l’occasione:
“E ora Biri, guardami negli occhi e dimmi che andrai al bancomat, preleverai 100 euro e li porterai a quel tunisino. Promettimelo” mi ha intimato, severo (ma gli occhi gli ridevano).
“Ma certamente. Come puoi dubitarne?” gli ho risposto. Poi, balenandomi in mente un improvviso pensiero: “Maledizione!” ho quasi gridato; “ma guarda la sfortuna! Proprio quando uno vuol far del bene! Accidenti alla fretta!” ero affranto, quasi sconvolto.
“Che è successo?” ha chiesto premuroso Dario vedendomi così dispiaciuto.
“Dario, Dario; ma dove ho la testa? Si invecchia e la testa se ne va. Vuoi sapere che cosa è successo? Mi sono dimenticato di chiedere a quel clandestino il numero del cellulare. E ora come faccio a fargli la ricarica?” Ho scosso la testa ripetutamente. “Miseriaccia cane! Proprio quando uno vuol far del bene!” ho fatto.

Dario non sapeva cosa dire (forse lo sapeva ma non l’ha detta).
Dopo un po’, sbollita la rabbia, è venuta l’ora di lasciarci sul serio.

“Biri” ha fatto Dario “ma almeno i soldi per le sigarette potresti portarglieli..”.

“Amico mio” gli ho risposto “o non ha sentito cosa dicono; che bisogna prendersi cura dei clandestini come di noi stessi? Hai letto cosa c’è scritto sui pacchetti di sigarette? IL FUMO UCCIDE. E io ci tengo alla salute dei nostri amici che vengono dall’Africa. Non vorrei che per colpa mia gli venisse un malaccio”.

Ci siamo salutati finalmente ed ognuno è tornato a casa sua. Io sono tornato per un’altra strada.

  

BIRI RUNNER - Magistratus italicus -

giovedì 7 aprile 2011

Ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare:...

Magistrati italiani che si dedicano anima e corpo per poter sputtanare mediaticamente  il Presidente del Consiglio italiano chiamandolo in giudizio a difendersi da un reato infamante per il quale non ci sono prove, non ci sono vittime, e non c’è nemmeno una costituzione in giudizio da parte di quella che, indicata come la vittima delle attenzioni morbose dell’orco dichiara invece a destra e a manca di non aver subito subito nessun danno né violenza da parte del premier, che ammira, e che gli unici danni li ha subiti dai magistrati e dai mass media dell’opposizione che le hanno rovinato la vita…

Magistrati italiani che, fregandosene altamente che il Parlamento italiano abbia deliberato che l’unico tribunale competente a giudicare il premier è, casomai, quello dei Ministri, continuano a mandare avvisi di comparizione al poveruomo, dichiarandolo contumace se quello, impegnato in colloqui internazionali per risolvere il problema immigrazione, non si presenta in aula…

Magistrati italiani che, pur di processare il premier, in mancanza di qualsiasi parte lesa, decidono di considerare vittima nientepopodimeno che l’Arci-donna (!), la famigerata organizzazione femminile (e femminista) di stampo comunista che, divenuta famosa tempo addietro per gli slogan tipo: “L’utero è mio e me lo gestisco io”, “Onore alle compagne lesbiche”, e “Amore libero”, ora, scopertasi improvvisamente puritana vuol costituirsi parte civile contro il premier per aver questi, con la sua condotta, “portato grave danno alla dignità delle donne” !!...

Magistrati italiani che dimostrano in piazza a favore del processo lungo perché quello breve potrebbe portare vantaggio al premier…

Magistrati italiani che dimostrano in piazza a favore delle intercettazioni selvagge perché una loro regolamentazione renderebbe più difficile poter spiare il premier...

Magistrati italiani… ecc…. ecc…

Ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare…..

Il Biri.

MUTO E TACITO

mercoledì 6 aprile 2011

Pensavo, Dario, come cambia il mondo! E quanto tremendi possono essere i cambiamenti; così drastici, così profondi da rovesciare un modo di intendere la vita,  così terribili da distruggere intere civiltà. Dirai: va bè, si sa; il corso del tempo; il passare dei millenni… No, Dario. Vuoi sapere quanto tempo ci vuole? Ce ne vuole poco; pochissimo. Un respiro profondo, un battito di ciglia, poco più. Basta solo che si avverino certe condizioni ed è fatta. La vita di me, di te, dei nostri cari e di tutti quelli che fino ad oggi hanno condiviso con noi la nostra esperienza secolare, che sono figli della stessa storia e che fanno parte della stessa cultura, può finire in un attimo, per lo meno nelle forme in cui l’abbiamo conosciuta e praticata.
Non ci credi? Allora seguimi con attenzione e non spazientirti se la prendo da lontano.
Ieri mi sono ricapitate tra le mani alcune vecchie cartoline tedesche che avevo acquistato anni fa in Alto Adige, in una specie di mercatino delle pulci. Risalgono tutte agli anni della Grande Guerra e sono affrancate con i francobolli delle Poste Bavaresi. Dal bollo postale si può risalire alla data in cui sono state impostate: tutte nell’anno 1915. I soggetti raffigurati vertono tutti sullo stesso tema: la chiamata alle armi di un soldato, la sua imminente partenza per il fronte, l’addio all’amata e la promessa di coronare il loro amore quando lui tornerà, dopo l’immancabile vittoria.
Voglio soffermarmi su una cartolina, quella che mi ha più colpito fra le cinque. E’ l’unica a colori, l’unica senza francobollo; voglio descrivertela dettagliatamente perché è importante per quello che voglio dire.
La cartolina rappresenta una coppia: lui è un soldato dell’esercito germanico, lei una ragazza di paese, la sua fidanzata. Entrambi sono giovanissimi; lui sembra un pò a disagio nella sua uniforme perfettamente stirata e con tanto di fucile a tracolla, baionetta agganciata alla vita ed elmetto (quello col famoso chiodo) già calzato sulla testa. E’ giovanissimo, poco più di un bambino; alto, con i baffettini ben curati e un’espressione decisa si vede che cerca di darsi un’aria bellicosa che non riesce però a nascondere una gentilezza di fondo. La mano sinistra, aperta, sul cuore; la destra stringe la mano dell’amata. La ragazza, in un abito semplice ma di buona, seppur modesta fattura (con il suo bravo grembiulino da brava donna bavarese) è triste; la vediamo che si terge una lacrima con un fazzoletto. La sua espressione però è quieta, rassegnata; il loro non è che un addio temporaneo, un arrivederci a presto. Dietro alla coppia, sullo sfondo di un paesaggio sbiadito scorre un fiume; da una sponda sale una collina dove svetta l’alta torre di un castello. In alto a sinistra, incastonata fra due rami di alloro intrecciati e tenuti fermi da una ghirlanda bianco-rossa-nera, il ritratto severo, ma sereno e determinato del Kaiser guarda negli occhi, parallelamente alla direzione dello sguardo del soldato, lo spettatore. A sinistra dell’icona imperiale e sopra la testa dei due innamorati, una frase incompleta, in corsivo: “Leb wohl, mein Brauchten…” viene completata, in basso a sinistra, a spiegare il senso dell’insieme: “Leb wohl, mein Brauchten schon! Muss nun zum Kampfe gehn” (A presto mia amata! Ora devo andare a combattere”).
La cartolina è colorata a mano. Gli unici colori vividi sono il verde della ghirlanda d’alloro e il tricolore germanico del fiocco; tutto il resto è coperto con colori a pastello assai poco vivaci, quasi smorti a rappresentare la malinconia di una separazione richiesta dalla Patria.
Ma la cosa più interessante, e per certi versi, più commovente della cartolina è il retro. La cartolina è stata spedita il 10 Febbraio 1915 e, invece del francobollo, porta il timbro dell’esercito tedesco. Proviene da un avamposto militare sconosciuto (per ragioni di sicurezza non è indicato nel timbro) ed è indirizzata alla Signorina Perta Schanz, abitante a Lindau. Non sono riuscito a decifrare le poche parole che compongono il testo della cartolina ma questo non è importante; sono parole scritte a penna, in un corsivo esile, ampio e disteso assai elegante, in poche righe allineate perfettamente. Al posto della firma, due iniziali puntate: N. N.
Questo era il genere di cartoline che i tedeschi si spedivano in tempo di guerra e, c’è da giurarsi, erano simili, mutatis mutandis (la lingua della scritta, il ritratto del sovrano, i costumi dei personaggi) a quelle che venivano spedite dalle popolazioni di ogni nazione in guerra.
Vedi Dario; per difendere l’Italia (o l’Austria) dall’essere invasa da popoli che dividevano la stessa storia, la stessa religione, la stessa cultura, la stessa arte e lo stesso stile di vita, fu combattuta una guerra atroce che generò centinaia di migliaia di morti; morti che scrivevano e ricevevano cartoline come quella che ti ho illustrato.
Gli italiani addirittura, trovarono nel “supremo ideale”, quello di conservare l’indipendenza e l’integrità territoriale, la forza di resistere all’avanzata nemica sul Piave e successivamente di respingere l’invasore; lo stesso Piave (il Fiume Sacro degli italiani) fece “contro i nemici una barriera” prima di mormorare: “non passa lo straniero!” bom-bom!
C’è da pensare (col senno di poi) che dopotutto, se quegli stranieri fossero passati, se quei nemici di allora avessero vinto e avessero occupato l’Italia, non avrebbero poi portato così tanti stravolgimenti nella vita degli italiani; il tempo sarebbe scorso più o meno come prima, le istituzioni basilari della nostra civiltà sarebbero rimaste più o meno le stesse: la famiglia, la religione, l’educazione dei nostri ragazzi, il senso dello stato e della storia… niente a ben vedere sarebbe cambiato se fossimo andati sotto l’Austria (molte regioni italiane c’erano rimaste per secoli); probabilmente i treni sarebbero arrivati più spesso in orario, la posta sarebbe stata più efficiente, il catasto sarebbe stato più aggiornato, si sarebbe bevuta più birra e meno vino… tutto sommato piccoli vantaggi, pochi svantaggi.
Ma era una questione d’onore, di patriottismo, di orgoglio, di principio: l’Italia respingeva “tutta unita” lo Straniero! “No, all’invasore!” fu il grido che cementò la volontà degli italiani di restare indipendenti, liberi, padroni in casa loro. E’ retorica? Penso di no; penso che anche oggi si ricordi con fierezza quella volontà, quella vittoria vista l’enfasi patriottica con cui tutti hanno voluto celebrare il Centocinquantesimo Anniversario della cosiddetta Unità d’Italia.
Sono passati poco più di novant’anni e di quell’orgoglio, di quella fierezza, di quella volontà, niente è rimasto, tutto è cambiato.
In questi giorni l’Italia è invasa da centinaia di migliaia di clandestini che, senza nessun motivo che non sia la loro prepotenza e la nostra vigliaccheria prtendono di essere nutriti, rivestiti, ospitati, sovvenzionati e curati. In cambio ci deruberanno, spaccheranno tutto quello con cui verranno a contatto, violenteranno le nostre donne e distruggeranno tutto quello che c’è da distruggere. A differenza dei nostri nemici di un tempo, questi non hanno niente in comune con noi, con la nostra storia e con la nostra cultura; questi ci odiano per ciò che siamo, per la religione che professiamo, per i diritti che abbiamo, per lo stile di vita che facciamo, per le leggi che ci siamo dati. Lo dicono chiaramente cosa vogliono e cosa non vogliono. Prima di tutto NON vogliono integrarsi: l’integrazione è addirittura proibita dalla loro religione. Vogliono conquistarci, sottometterci e colonizzarci e c’è da giurarci Dario, continuando così le cose ci riusciranno perché ci stanno già riuscendo. L’Italia, l’Europa, tutto questo lo sa (anche se non lo dice) ma letteralmente, NON PUO’ difendersi perché è disarmata mentalmente, fiaccata ideologicamente da decenni di propaganda comunista. Chi oggi, a questa invasione che ci sommergerà, potrebbe solamente proporre la difesa più semplice, quella che fino a cinquant’anni fa sarebbe sembrata la più banale, la più ovvia, la più giusta: combattere chi ci invade. Opporsi agli invasori, ricacciarli  da dove provengono e con qualunque mezzo prima che l’abbiano vinta.
La cosa pazzesca, Dario, è che ognuno (ogni persona, ogni governante, ogni parte politica) sa che questa sarebbe la sola cosa che potrebbe ancora salvarci ma non può, letteralmente NON PUO’, dirlo. Troppa acqua è passata sotto i ponti: marxismo, comunismo, parole d’ordine come: internazionalismo, pauperismo, solidarismo… Non siamo più quelli di allora, Dario, e nemmeno i nostri nemici lo sono: questi non lasceranno niente come prima. Siamo povera gente; niente onore, niente orgoglio, nessun tipo di coraggio.. con ineluttabilità aspettiamo la fine del nostro mondo che è certa, ed avverrà per un atto collettivo di irresponsabile masochismo. Il Mediterraneo solcato giorno e notte da centinaia di barche che scaricano sulle nostre spiagge i nuovi invasori dovrebbe essere oggi il nostro Piave; ma quello che fu una volta il “mare nostrum” senza le nostre volontà unite è solo una distesa d’acqua “muta e tacita” che non fa più alcun tipo di barriera alla marea di vandali che indisturbati, lo attraversano.
Possiamo confidare solo nel Signore: che Egli soccorra i nostri figli.

IL CAPPOTTO

domenica 3 aprile 2011

Lo so che è difficile crederci Dario, ma ti assicuro che è la pura verità. Non so spiegarti “veramente” com’è fatto. Posso dirti solo che è pesante, scuro e robusto, che si attaglia a tutti, uomini e donne, e non si consuma mai. E soprattutto costa poco, anzi, pochissimo rispetto a quello che dà; e dà tanto, più di quanto uno potrebbe mai sognare di avere. Tu mi chiedi di che cosa è fatto. Dario, cosa vuoi che ne sappia? So solo che deve essere fatto di stoffa buona considerato che moltissimi se lo mettono in ogni occasione, lo tengono quando leggono un giornale, quando guardano una trasmissione in TV, quando vanno al cinema e non rinunciano a indossarlo nemmeno quando devono fare una dichiarazione, nemmeno quando si siedono per scrivere una lettera, o un articolo, o per chattare su Internet. Qualcuno se lo tiene stretto anche quando (scusa la franchezza) si apparta in bagno per certe funzioni corporali; conosco coppie che non se lo tolgono nemmeno quando fanno all'amore.
Come è fatto? Beh, è un cappotto di taglio classico, sembrerebbe forse un pò ingombrante dato che copre la persona dalle spalle alle ginocchia, ma ti assicuro che ti protegge da tutte le intemperie; insomma, ti fa star bene. Indossarlo è facile, anche troppo; semmai è difficile toglierselo di dosso perché quando ci si è fatta l'abitudine non ci si leva più (salvo quando siamo a casa, stesi nel letto in attesa di prender sonno, nei pochi momenti aurei in cui si può lasciar libera la mente di volare dove vuole e le cose ci appaiono in un lampo – ma domani ci se ne scorderà – per quello che sono e non per quello che vorremmo che fossero). La parte più bella del cappotto però non sono le sue ampie tasche dove ci si può riporre di tutto, non è la sua fodera lucida che fa brillare gli occhi a chi la vede. Sono i suoi bottoni: cinque grossi bottoni gialli e luccicanti che sembrano d'oro. Tu forse osserverai che cinque grossi bottoni dorati in un cappotto scuro rischiano di far sembrare chi lo porta una specie di maresciallo dell'Esercito o un portiere di un Grand Hotel ma io ti dico (io che quel cappotto non l'ho mai indossato ma che a forza di vederlo addosso a tanti amici e conoscenti, posso dire di conoscerlo benissimo), io ti dico che invece dona. Quel cappotto ti dà importanza, ti fa passare per uno importante, uno tosto, sveglio, intelligente, e inoltre fa sembrare azzeccate le tue opinioni, dà una sorta di lasciapassare alle tue idee. Credimi, Dario: anche il più cretino, non dico degli uomini normali, ma anche dei giornalisti, dei conduttori televisivi, degli scrittori e dei registi, quando si presenta ammantato col suo bel cappotto chiuso da quei meravigliosi cinque bottoni similoro riesce a fare la sua porca figura qualunque cosa dica, o rappresenti.
Il taglio forse è un po’ antiquato (pare che la sua forma derivi da un certo tipo di pastrano militare che faceva parte della dotazione dell’esercito sovietico) ma mi dicono (e non ho motivo di dubitarne, visto come va di moda anche ai giorni nostri, specie in Italia) che una volta indossato è talmente comodo che non ci se ne stacca più. E inoltre pare che possegga una qualità prodigiosa: quella di attagliarsi perfettamente al corpo di chi lo indossa. Insomma, nonostante la sua grana grossa e la sua pesantezza, in breve tempo diventa come una seconda pelle e non se ne può più fare a meno. Non c’è pioggia, gelo o neve che riesca a trapassare la stoffa di quel cappotto; mi dicono che chiusi là dentro non si avverte mai il freddo e ci si sente pronti ad affrontare qualunque sfida, qualunque dibattito, qualunque minaccia. E non c’è dubbio, non c’è titubanza, non c’è prova contraria che riesca a superare la barriera di quella stoffa: protetti dalla sua trama e dai suoi cinque bottoni possiamo superare qualsiasi pericolo, possiamo controbattere vittoriosamente qualunque affermazione, possiamo vincere ogni sfida dialettica, possiamo proporci come depositari della Verità assoluta.
Il cappotto ci fa da scudo e da riparo, ci apre le strade davanti e ci difende dai nemici, ci rappresenta al mondo come “giusti”, ci innalza, dà ragione alle nostre idee, offre diritto di cittadinanza alle nostre affermazioni (anche le più strampalate, mi dicono).
Questo so e questo scrivo: e non ho nessun motivo di dubitare di queste affermazioni. Io, da parte mia, quel cappotto non l’ho mai indossato e penso che non lo indosserò mai. E’ troppo pesante da portare, per me. E, a parte il modello vetusto, c’è qualcosa nel suo taglio che non mi si addice. Forse è la stoffa che non mi piace,  forse sono i bottoni (troppo pacchiani per i miei gusti) che mi respingono, o forse… forse…
Ho trovato: è l’odore. Quel tipo di cappotto emana un odore particolare. Un odore quasi inavvertibile ma che a ben annusare diventa evidente anche ai nasi meno esercitati. Chi indossa il cappotto giura di non sentirlo ma coloro che hanno a che fare con chi lo porta non hanno dubbi: l’odore c’è. Eccome. E’ un odore che sa di stantìo, un afrore esile esile ma evidente che richiama come un misto di ragnatela e di pozzo nero; una puzza più che un odore, insomma. Evoca brutti pensieri quell’odore, fa intravedere uno squallido passato e presagisce un triste futuro. Ecco perché preferisco indossare senza rimpianti il mio vecchio giaccone blu stile pescatore, quello con quattro tasche chiuse da una cerniera lampo e senza alcun bottone. Certo è un po’ stinto, un po’ sdrucito; c’è anche qualche macchia un po’ sbiadita. Ma è fresco, mi ci sento a mio agio e mi dà una piacevole sensazione di libertà. E non puzza.