Missione del blog

Il Biri, il socio più anziano titolare della celebre Agenzia (*), ha l'abitudine, da anni, di annotare i suoi pensieri, le sue osservazioni e gli avvenimenti che gli accadono (anche i meno memorabili) in un taccuino che non mostra a nessuno e del quale è gelosissimo.
Ora, avuto il permesso di visionarlo, l'ho trovato per certi versi interessante (come tutto quello che concerne il Biri) e gli ho chiesto perché non lo pubblicasse in un blog. Impresa disperata: il Biri non sa usare nemmeno il telecomando del televisore, figuriamoci il computer! Impietosito ho deciso di aiutarlo e pertanto ecco qui il blog con le pagine del taccuino del Biri che potrete leggere e commentare ricordando sempre che il sottoscritto non si prende alcuna responsabilità del contenuto essendo il suo contributo solamente quello di una collaborazione tecnica e poco più.


Per saperne di più, leggere il post dal titolo: Ouverture.
R.M.

(*) L'Agenzia di Ascolto e Collaborazione Morale della quale parlerò appronditamente in un prossimo futuro su queste pagine.

Roberto Mulinacci

IL CAPO E' NERVOSO

giovedì 26 maggio 2011

Oggi Bersani è intrattabile. Sempre scuro in volto, iroso, pronto a scattare su per un nonnulla, incavolato nero come da qualche tempo non succedeva. I suoi sono costernati: “Ocché gli è successo?”, “Ocché gli s’è fatto?”. Non sanno darsi una risposta; si guardano tra di loro, smarriti, alla ricerca di un indizio. Niente; “Ammazza quanto è lezzo oggi Gargamella!” si ammiccano l’un l’altro quando si incrociano nei corridoi della Sede del PD. Non sanno darsene una ragione.
Ma, per scoprire il mistero, facciamo un passo indietro.
Allarmati per la continua emorragia di consensi che rischiava in breve tempo di ridurre quello che era pur sempre l’erede del Partitone, la bandiera dei Proletari, il punto di riferimento di tutti i progressisti doc (nonché ovviamente pacifisti e antiimperialisti) al livello di un IDV qualsiasi, le Alte Sfere avevano deciso di correre ai ripari.
Compagni” aveva sussurrato la Bindi (parlava a bassa voce per non farsi sentire dal Bersa) ai suoi fedelissimi: “se continua con quest’andazzo qui tra poco non votano più per noi nemmeno i comunisti. Non so se mi spiego”. E così era stato indetta una riunione che, dopo un lungo ed accurato studio di tutte le variabili era giunta ad una conclusione; l’unica, a sentire Franceschini, in grado di cambiare l’ordine delle cose e di far tornare suffragi e consensi sul glorioso Partito dei Lavoratori.
La sera si erano fatti ricevere da Bersani e l’avevano messo con le spalle al muro.
Senti” gli aveva detto a muso duro la Rosy, spalleggiata da Franceschini e da D’Alema, “qui la situazione è grave. C’è un solo mezzo per salvarci e dipende da te.” e poi, in un orecchio: “anche l’Uomo del Colle… capiscimi… è d’accordo”.
Bersani aveva chiesto, piuttosto allarmato, cosa poteva fare. Lui era disposto a tutto per il bene del Partito.
Facile” aveva risposto la Bindi “abbiamo trovato cosa c’è in te che non va. Non sei abbastanza “giovane”. Per dirla con Celentano, sei “lento”, compagno Bersani. E invece i nostri elettori vogliono essere guidati da gente “rock”! Non sei d’accordo?” aveva chiesto melliflua.
Bersani aveva sospirato; cosa bisogna fare per il bene del Partito! Ma dopotutto era o non era lui il Segretario, l’Uomo più influente del PD, il Primo e Unico Nemico del Diabolico Cavaliere? Dopo un minuto buono di silenzio aveva accettato:
Allora, cosa avete deciso? Cosa devo fare? Sono disposto a tutto” aveva dichiarato stoicamente generando così un lungo e spontaneo applauso di tutti i presenti.
Vedi, compagno Bersani, anzi, vorrai scusarmi se ti voglio chiamare “amico” Bersani. Dovresti cambiare un po’. Modificare il tuo comportamento… il tuo atteggiamento…” e poiché non proseguiva Franceschini aveva prontamente continuato: “Anche il tuo look”.
Amico Segretario” toccava alla Bindi concludere “Abbiamo deciso che per vincere devi comportarti come Vendola. Fai come lui, parla come lui, usa i suoi argomenti, fai tuo il suo stile di vita. Imitalo in tutto e, ne siamo tutti sicuri, vincerai” aveva concluso trionfante la suffragetta di Sinalunga.

Dopo un po’ che quelli se ne erano andati Bersani aveva cominciato a riflettere sulla sua posizione e sulla promessa che (ne era sicuro) gli avevano estorta. Accidenti a loro!
Comunque si era dedicato fin da subito ad accontentarli.
Il giorno successivo aveva iniziato a prendere lezioni di pugliese (dal fruttivendolo che era originario di Taranto) e, anche se la sua parlata romagnola non se ne voleva andare del tutto, i risultati già cominciavano a farsi sentire. Tempo tre ore e parlava come un Lino Banfi imitato da Valentino Rossi: non un granché ma, ne era sicuro, gli elettori avrebbero apprezzato. Poi si fece mettere due orecchini, uno per parte (uno solo gli sembrava poco: era o non era lui il Segretario?) e, consigliato da tutta la componente femminile del suo Ufficio si decise, a partire dal giorno dopo, a cambiare modo di vestire (più giovanile), di parlare (meno politichese, più giochi di parole e battute fulminanti – gliele avrebbe scritte Fabio Fazio –) e di affrontare Berlusconi (con ironia, sorridendo e senza mai lasciarsi andare ad improperi, allusioni al bunga-bunga ed offese triviali, tutte cose del suo repertorio passato che, gli avevano detto, non piacciono nei salotti che contano della sinistra radical-chic).
Arrivati a sera e tornando, stanco ma soddisfatto, a casa, Bersani poteva in tutta coscienza affermare a sé stesso di aver fatto grossi progressi; ci si era impegnato a fondo, d’accordo, e nei giorni successivi il lavoro sulla sua immagine per renderla sempre più vendoliana sarebbe stato ancora più difficile, ma ci stava provando e i risultati si sarebbero visti presto: dalle prossime elezioni.
E così, dopo aver cenato e aver seguito, come ogni sera, i programmi di RAI3, il Bersani, stanco come non gli capitava da anni non vede l’ora di mettersi a letto. Si spoglia, si mette la camicia da notte (il pigiama è roba da borghesi!), si corica, si volta su un lato e fa per addormentarsi.
Una mano lo tocca, lo scuote… Bersani accende l’abat-jour: che succede? Chi è?
E’ la moglie, la signora Daniela. Ha notato che c’è qualcosa che non va nell’uomo che ha sposato e che è stato il suo compagno da una vita. Vuole vederci chiaro. Bersani non ce la fa quasi a tenere gli occhi aperti ma quella insiste, alza la voce, lo scuote… basta! Beh, dopotutto è un suo diritto, pensa Bersani, e, cercando di prevalere sul sonno che lo avviluppa, le racconta tutto per filo e per segno. Silenzio.
La Signora Daniela tace. Pensa. Poi chiede: “Ma com’è che ti è venuto in mente di imitare proprio il Vendola?”. Bersani le rispiega tutto: la calata di consensi, la decisione di cambiare atteggiamento… La Signora Daniela lo interrompe: “E cosa dovresti imitare di Vendola?” chiede (ma si vede che è nervosa). “Beh, cara, tutto. Devo sembrare come lui. Comportarmi come fa lui. Se riesco ad essere come lui, è fatta. Vinceremo le lezioni e sarò ancora Segretario” conclude trionfante. Ora potrà dormire? No. Per niente. La Signora Daniela non si fa mica convincere.
Senti un po’, a Segretario” gli fa ironica “Fuori di questa casa imita chi ti pare, anche quel (e qui dice una parola che, per pudore, mi rifiuto di riportare) di Vendola. Ma in questa casa e dentro questo letto….  Senti mò (ora parla a voce alta, altissima e Bersani si fa piccino piccino, si sposta in un angolo del lettone e vorrebbe sprofondare, dormire, forse sognare) non t’azzardare a comportarti come Vendola! E non mi far dire di più! Mi hai capito”. Poi anche la Signora Daniela, mugugnando spenge la luce e si gira dall’altra parte. Ma Bersani ha perso il sonno, ormai. E riesce a sentire ancora la moglie che dice, come parlando tra sé e sé “Mi fa il Vendola, quello. Ma se vuol fare qualcuno, almeno in questa casa, faccia il Berlusca.. se gli riesce”. 

LETTERE SENZA RISPOSTA. –Ragazze.

mercoledì 25 maggio 2011

“Caro Biri,
hai notato che in giro non ci sono più ragazze?
Non so tu, ma io che sono abbastanza all’antica ma ancora relativamente giovane, reputo la cosa estremamente preoccupante. Quello che mi lascia basito è che, a sentire gli esperti (che dicono la loro su tutto e da ogni parte) le donne in generale e, presumo, le ragazze in particolare, si stanno espandendo. Sono più le donne di noi uomini, pare, e continuando con quest’andazzo c’è solo da sperare che il genere umano arrivi presto a riprodursi per partenogenesi perché i pochi uomini che di qui a qualche anno resteranno su piazza, oltre ad ingegnarsi a sopravvivere nei regimi di matriarcato che inevitabilmente verranno istituiti in tutti i Paesi del mondo, figurarsi se se la sentiranno ancora di impegnarsi, come facevano in passato, in tutto quel popò di cerimoniale che partendo dal puntamento, passa dal corteggiamento, giunge quindi al petting per poter poi arrivare stremati alla sudatissima e spesso velleitaria scopata remuneratrice. Scopare chi poi, dato che non ci sono più ragazze! (Ci sono sì adolescenti di sesso femminile ma queste a me non interessano. Mi interessano le ragazze!). Una volta le ragazze si dividevano in tre grandi categorie: le studentesse, le lavoratrici e le atte-a-casa. Oggi? Niente di niente; estinte, cambiate, o imbastardite, le tre categorie non ci sono più. Guarda un po’ le studentesse; o dove sono? O come sono fatte? O da che si riconoscono? Io non le vedo. Ricordo che ai miei tempi uno dei momenti imperdibili, uno di quei momenti che ti riconciliava con l’universo e che ti faceva pensare che veramente esisteva un giusto Dio che è buono e ti ama se ti permetteva di godere di momenti come quelli, era l’uscita di scuola delle liceali. Ti mettevi in postazione un quarto d’ora prima che suonasse la campanella e tutto quello che dovevi fare era aspettare. E io aspettavo con fiducia.
Per un po’ non succedeva niente, poi, lontano, ovattato, ma distinto, ecco il suono della campanella! Il tempo di mettersi bene in vista e di scegliere la posizione più strategicamente vantaggiosa (proprio davanti al cancello della scuola, in modo che le studentesse che sciamavano via quasi ti investivano, e sentivi il loro fresco profumo di fragrante lavanda o di modesto Camay, coglievi i loro sguardi, godevi dei loro sorrisi e, a volte, ce la facevi anche a farti sfiorare dai loro corpi fuggitivi) ed ecco la felicità! Decine e decine di giovani ragazze, tutte dai tredici ai vent’anni (ripetenti queste; ma chi se ne fregava!) ti venivano incontro ridendo e cinguettando tra loro, tutte con le loro sottanine al ginocchio scampanate o a pieghe, e i calzini bianchi sopra le scarpette colorate senza tacco, e la camicetta con il colletto che sporgeva da sotto il golfino e il pacco dei libri stretto al seno. I capelli lunghi, biondi o bruni, tenuti insieme da una larga passata, esaltavano senza coprirlo un viso solare, spesso tempestato da una minigrandinata di lentiggini dorate e le belle labbra rosse, rese lucide dal burro cacao, mostravano irresistibili, splendenti dentro un sorriso timido ma aperto e spensierato, i bei dentini color perla. A far finta di cercar di resistere a quel fiume in piena che ti investiva in pieno petto ti sembrava di rinascere. Almeno, a me mi sembrava.
E oggi? Hai provato ad aspettare la campanella davanti ad un liceo di oggi?
Già la vista della scuola dà una bella mano a toglierti dalla testa, casomai tu ne avessi, eventuali pensieri erotici.
I muri di pietra del tempio che dovrebbe essere  il simbolo stesso della scienza e della disciplina sono tutti coperti fino ad un’altezza di 2 metri da ghirigori e scarabocchi senza senso tracciati a spregio (per far vedere quanto siamo ribelli, fratello!) con spray indelebili dei colori più smaccati. Ci sono anche delle scritte (o almeno tali potrebbero essere) interlacciate con le spirali, i vortici ed i ghiribizzi grafici a comporre l’orrendo porcaio(anche se è stato deciso, visto che non si riesce ad impedire lo scempio, di definire quei troiai: “Arte di Strada”). Si distingue un “Gooof!” rossissimo e un “free-trip” tutto spirali goticheggianti; forse le parole d’ordine degli studenti stradartisti. Davanti, appoggiati ai muri della scuola, intasanti tutti e due i lati della strada che vi conduce e riempiendo all’inverosimile la piazzetta che le dà accesso, un oceano di motori, motorini, moto e comunque mezzi di locomozione a due ruote tutti delle più incredibili varietà ma unificati nell’essere, tutti, parcheggiati a “c..o di cane” nel modo cioè che più può ostacolare il cammino dei malcapitati non-studenti che passano da quelle parti. In queste condizioni quale può essere la posizione più strategica dove conviene mettersi ad attendere il suono della campanella? Boh; mettiamoci davanti al cancello.. “Ahò, lì non si può stare. Lasciare libero il passo!” fa una voce strafottente ed invisibile. Mi sposto di lato. Aspetto. Poco prima che la campanella suoni ecco che già alcuni studenti cominciano ad uscire. Corrono via alla spicciolata; forse hanno un permesso speciale per cui possono uscire, solo loro, non dopo il suono della campanella ma (chissà perché) un minuto prima. “Driiiiiiiiiiiiinnn! (ad libitum)”. Ci siamo. Pregustiamoci l’ondata delle ragazze! Manco per niente! Una marea nera o cangiante dal nero al grigio scuro, si muove velocemente verso il mio rifugio. Guardo bene: sono tutte femmine! Queste (mi dico per convincermi) sono ragazze; hai capito? Ragazze! Non ci credo; non lo ammetto; non mi capacito. L’orda che avanza è triste, senza colori, senza allegria; tutte indossano vestiti che si potrebbero definire uniformi asessuate: nessuna gonna, nessuna sottana, nessun vestitino completo; solo jeans o pantaloni neri (alcuni con macchie, altri con strappi) ma tutti rigorosamente fuori taglia. O troppo larghi, o troppo (troppissimo) stretti, o corti in vita (ché davanti si veda l’ombelico e da dietro, il solco delle meluzze) o lunghissimi in modo che la tipa in questione possa camminare solo pestandone l’orlo. Addosso, tutte, giubbotto nero, spesso con borchie. E capelli neri o scuri, e rossetti scuri e demenziali anelli metallici inchiodati a casaccio nel viso ad accentuarne lo squallidume. Al collo, tutte con la famosa sciarpina stile  Al-Fatah, ché si veda come siamo pacifiste e rivoluzionarie, par vadano dicendo! Nessun viso da ricordare, nessuno sguardo che possa infiammarti, nessun fruscìo di gonne che ti solletichi e nessuna gamba da valutare con sguardi da presunto intenditore… solo un omologamento acritico su un modo di apparire asessuato che “deve” essere seguito. Escono a passo svelto, molte sembrano impegnate in discussioni violente a giudicare dal tono altissimo della voce con la quale urlano nel telefonino, altre si spintonano (urla: “C…, mavaff…lo!), qualcuna accende subito una sigaretta. Nessuna sorride. Sorrido a una, quella che mi sembra la più carina… “Aò, che ciài da guardà?” fa la tipa scuotendo il capo e lanciandomi uno sguardo pieno di commiserazione. La turba monocromatica si dilegua in due minuti tra sgassate di motorini, urlacci e strombazzate di clacson.
E le ragazze? Dove sono finite le mie ragazze?”

LETTERE AL BIRI -2- Le Poste

sabato 21 maggio 2011

Preg/mo Sig. Biri
E’ un po’ di tempo che la posta mi viene recapitata saltuariamente; non più di due volte alla settimana, spesso una. In certi periodi dell’anno il ritardo è enorme; in prossimità di una festività importante, addirittura grottesco. Succede anche che le lettere mi vengano recapitate aperte o con le buste tutte stropicciate e non si contano le volte che la mia corrispondenza va a finire nelle cassette delle lettere dei vicini mentre io mi trovo tra le mani la posta di altre persone che abitano in strade lontanissime dalla mia, che portano un cognome diversissimo dal mio e che comunque mi sono completamente sconosciute. I pacchi poi, quelli non arrivano più e per averli bisogna andar di persona, con l’auto o il taxi, a prelevarli dal deposito più vicino che comunque dista diversi chilometri e non è raggiunto dai mezzi pubblici.
Le chiedo: secondo Lei si tratta di un disservizio o è un comportamento che le Poste Italiane adottano consapevolmente, chissà, forse per modernizzarsi? E nel caso ci fossero invece delle responsabilità queste a chi competono? E, in sostanza: come posso fare per avere la mia posta (compresi i pacchi postali) al mio recapito, in buone condizioni ed in tempi brevi, come una volta?

Grazie e saluti carissimi,

Dott. Poldo Macubi


Caro Poldo (scusa se ti chiamo confidenzialmente così),
cosa vuoi che ti dica? Le Nuove Poste Italiane ormai funzionano così e né tu né io possiamo farci niente. Io ad esempio ho smesso di lamentarmi per i disservizi che riguardano la mia corrispondenza. Pensa che l’altro giorno, 12 Maggio 2011, ho ricevuto (per meglio dire: ho trovato nella mia cassetta delle lettere) una busta spedita da un noto Gestore Telefonico (sai, una di quelle Associazioni a Delinquere che affliggono l’esistenza di molti poveracci come noi). La busta era indirizzata alla Sig.ra Romualda De Carrubis, abitante in Vicolo del Fischietto a Tegolaia, Provincia di Siena ed era regolarmente priva di timbro postale (un’altra grande novità delle Poste Italiane, adottata presumibilmente per complicarci ancora di più la vita); sotto il francobollo, in blu e in stampatello, una scritta: “Urgente”. Dopo averla girata e rigirata tra le mani ho cominciato a pensare a chi potesse essere il destinatario della missiva. Romualda De Carrubis… uhm.. sembrava il nome di una persona importante, almeno a giudicare dal De; abitante a Tegolaia: o dov’è? Grazie ad una fortunata ricerca sul PC ho potuto appurare che si trattava di una frazione ad una cinquantina di chilometri dalla città in cui abito io. Forse la lettera era importante, mi sono detto. Forse Romualda (la chiamavo confidenzialmente così nei miei pensieri) la aspettava da tempo; forse non riceverla le avrebbe potuto provocare un notevole danno, che sò?, la rinuncia ad un allacciamento, o la perdita di un diritto di precedenza; o forse nella busta c’era un assegno per un rimborso, chissà? …
Sono andato all’Ufficio Postale dove ho trovato una fila di tre o quattro persone in attesa di presentarsi davanti all’addetto; “Meno male” ho detto fra di me “Poca gente: in cinque minuti ho fatto” e mi sono messo in attesa. Dopo due ore ho potuto presentarmi faccia a faccia davanti all’Impiegato Postale. Gli ho fatto vedere la lettera; gli ho detto che era stata recapitata a me ma che io, oltre ad appartenere ad un altro sesso, chiamarmi in maniera diversa, abitare in un’altra via ed in un’altra località di quella della fantomatica Romualda, ero incontrovertibilmente un’altra persona. L’Impiegato non ha voluto sentire ragioni: “Non potrà mica pretendere che ce la ripigliamo noi, vero?” (si riferiva alla busta); “Per quanto mi riguarda questa missiva può averla fabbricata lei, caro signore, dato che non c’è nessuna prova che provenga da questo Ufficio Postale. Non vede che non c’è nemmeno il timbro?” ha fatto trionfante mostrandomi la busta. Era vero: il timbro non c’era, come avevo avuto modo di verificare in altre occasioni. “Perché, il timbro adesso ce lo mettete?” ho chiesto, sardonico. “Neanche per idea, caro signore” ha ribattuto l’impiegato, e dopo un: “Le sarebbe piaciuto, eh?” ed è passato a servire il prossimo cliente che voleva comprare una scatola di pennarelli.
Uscito dall’Ufficio Postale ho cominciato a pensare. Cosa mi conveniva fare? Uno: distruggere la lettera. Dopotutto non era mia; potevo far finta di non averla ricevuta. Non me la sono sentita. Pensa che ti ripensa ho deciso di consultare l’elenco telefonico. Se la Romualda era nell’elenco avrei potuto avvisarla e lei, se avesse voluto, sarebbe potuta passare da me per prendere la sua busta. Nell’elenco non c’era. Ho pensato di mettere la busta in un’altra busta e di mandarla alla De Carrubis ma poi mi sono detto che c’era il fondato rischio che me la ritrovassi, come l’altra, nella mia cassetta postale: se il fottuto postino (chissà chi era: cambiavano ogni settimana!) ragionava come aveva fatto nell’occasione della busta originale la cosa era, più che probabile, certa!
Ho deciso di andare a Tegolaia. Lo so, sono fatto così io, sono “troppo” corretto, ma sarei stato male se non avessi provato in ogni modo a consegnare la missiva a Romualda. Così, l’indomani ho preso la macchina, ho fatto benzina e sono partito alla volta del ridente paesino di Tegolaia. Non ci ho messo poi tanto: in poco più di due ore, dopo essermi perso ed aver ritrovato la strada un paio di volte (o provateci voi ad andare per la prima volta a Tegolaia in meno tempo, se siete tanto bravi!) eccomi nel centro del paese (una specie di aia in mezzo a quattro case decrepite). Il paese era quasi disabitato, poverissimo; non ho visto un uomo o una donna di età adulta: solo vecchi e persone anziane.
Domandato della Signora Romualda (“Ah, la lavandaia!” hanno detto) mi hanno indicato un prato, dietro una casa malandata, dove poche donne erano occupate a stendere i panni su alcuni stenditoi. Mi sono presentato, ho spiegato a Romualda chi ero, perché ero lì e di che cosa si trattava, e le ho fatto vedere la lettera che avevo per lei. Mentre parlavo le altre donne avevano smesso di dedicarsi ai panni e si erano avvicinate e, al vedere questo assembramento (minimo, ma per un paesino come Tegolaia, mica tanto frequente!) anche alcuni vecchi sono venuti a sentire di che cosa si trattasse.
Quando ho chiesto a Romualda quanto tempo era che da lei non passava il postino, l’anziana donna ha alzato la mano sinistra sopra il capo, l’ha aperta, e, sorridendo amaramente, l’ha agitata  avanti e indietro come a ricordare qualcosa dei bei tempi andati facendo, con un gran sospiro: “Ehhh! Il postino…..”. I presenti, capito ormai di cosa si trattava, hanno cominciato a rompere le righe e a tornare alle loro occupazioni (si fa per dire..) scuotendo il capo e bofonchiando qualche frase incomprensibile fra le quali però sono riuscito ad isolarne una: “Un postino… occheè“ e poi un’altra: “Io mi ricordo ancora quando la posta arrivava una volta alla settimana…”. Era un vecchio, subito rimbeccato da un altro: “Oh Giulio, ma che ti vòi ricordà te… il postino… Ma lascia perde, và..” e poi a me: “Lo scusi sa, è vecchio” e ancora, a concludere: “La posta qui non arriva. Punto e basta.” Ho immaginato tutta la contentezza di Romualda ad avere finalmente tra le mani, la sua lettera. La povera donna, confusa, non la smetteva più di ringraziarmi e dopo aver girato e rigirato la sua busta tra le dita ha preteso che l’aprissi con lei e gliela leggessi io, forse per cercare di attenuare un po’ l’emozione che l’aveva attanagliata (o forse – mi è venuto il dubbio – perché non sapeva leggere).
Era una comunicazione di uno Studio legale italo-americano che comunicava alla De Carrubis sia la morte di un certo zio Ginetto (emigrato in America sessant’anni prima e sparito nel nulla per decenni), sia il luogo e la data dell’apertura del testamento dello stesso zio (una settimana dopo) avvertendola che, in caso di una sua assenza e di un valida giustificazione al riguardo (essendo lei, Romualda, l’unica erede), l’intero patrimonio del de cuius sarebbe stato devoluto all’Associazione Nazionale per la Riabilitazione dei Cavalli da Calesse Infortunati. Romualda ha voluto che le rileggessi la data della lettera. “27 Marzo 1998” ho sillabato, senza guardarla in viso. Tredici anni prima! Come passa il tempo! Poi, per completezza di informazione, le ho comunicato, cercando di non mostrare alcuna emozione, l’importo del patrimonio di zio Ginetto: 10 milioni di dollari. Romualda è rimasta un minuto buono a capo basso, poi, con un sorrisetto nervoso, ha preso in mano il bordo del grembiule e si è asciugata una lacrimuccia che aveva cominciato a scenderle sulla guancia. Senza salutarmi si è diretta di nuovo verso il prato dove giacevano nell’erba i panni da stendere e ha mormorato: “Eh!... Queste Poste…..”. Senza dare nell’occhio sono tornato alla mia auto e me la sono svignata alla chetichella. Mi aspettavano due ore di strada infame prima di poter essere finalmente a casa.

BIRI RUNNER - La Festa del Lavoro

giovedì 12 maggio 2011

Ho visto cose che voi umani nemmeno immaginate….

… vidi turbe di giovani aggredire quei negozianti che il 1 Maggio, approfittando di una possibilità loro concessa da una disposizione comunale, avevano deciso di tenere aperti i loro negozi.
Sentii con le mie orecchie gli aggressori che dissero di esser stati provocati da quella decisione poiché, essendo la sacra giornata del 1 Maggio dedicata alla Festa dei Lavoratori, NESSUNO DEVE in tal giorno permettersi di lavorare.
Sarebbe stato, non dico scusabile, ma perlomeno comprensibile o riconducibile ad altre violenze dello stesso tipo, fatti condannabili ma frequenti, se solo gli aggressori fossero stati, che so?, braccianti agricoli, muratori o manovali edili, operai siderurgici, cavatori di marmo, minatori di zolfo, addetti alle draghe o alle ruspe, raccoglitori di rifiuti tossici o anche, semplicemente, impiegati in qualche call-center dalle linee roventi… ma sapere che quelli che si sentirono in dovere di far roteare i pugni, spaccare le vetrine e incendiare le saracinesche di chi voleva lavorare erano tutti ospiti dei cosiddetti Centri Sociali (e quindi notoriamente sfatigati, nullafacenti, mantenuti a vita dallo Stato e comunque persone che, non avendo mai lavorato in vita loro non sanno neppure di cosa si tratta, il colore che ha, a cosa assomiglia, quale è il suo sapore o dove sta di casa, il Lavoro), conferì una nota di incoerenza ironica alla violenza dei loro gesti dove la tristezza metafisica cozza incongruamente contro la loro stessa evidenza e dove un mesto sorrisetto increspa appena le labbra (portate al disgusto più schifato) del lettore di tali gesta privo di parole di fronte a tali porcate. E pertanto, posso davvero dire:

ho visto cose che voi umani….