Missione del blog

Il Biri, il socio più anziano titolare della celebre Agenzia (*), ha l'abitudine, da anni, di annotare i suoi pensieri, le sue osservazioni e gli avvenimenti che gli accadono (anche i meno memorabili) in un taccuino che non mostra a nessuno e del quale è gelosissimo.
Ora, avuto il permesso di visionarlo, l'ho trovato per certi versi interessante (come tutto quello che concerne il Biri) e gli ho chiesto perché non lo pubblicasse in un blog. Impresa disperata: il Biri non sa usare nemmeno il telecomando del televisore, figuriamoci il computer! Impietosito ho deciso di aiutarlo e pertanto ecco qui il blog con le pagine del taccuino del Biri che potrete leggere e commentare ricordando sempre che il sottoscritto non si prende alcuna responsabilità del contenuto essendo il suo contributo solamente quello di una collaborazione tecnica e poco più.


Per saperne di più, leggere il post dal titolo: Ouverture.
R.M.

(*) L'Agenzia di Ascolto e Collaborazione Morale della quale parlerò appronditamente in un prossimo futuro su queste pagine.

Roberto Mulinacci

RISORGIMENTO: Facce di marmo e facce di bronzo.

mercoledì 23 febbraio 2011

Il Risorgimento quest'anno è di gran moda; "colpa" o "merito" di Napolitano che non perde mai occasione di richiamare tutti ai valori ideali di quell'epoca e degli avvenimenti eroici (e meno eroici) che la caratterizzarono.
E' stata addirittura ideata in fretta e furia una nuova Festività Nazionale: il Giorno dell'Unità d'Italia, da celebrarsi il 17 Marzo, data che si rifà a quella analoga del 1861 quando fu istituito ufficialmente il Regno d'Italia.
A parte il fatto non trascurabile che, come già detto in questo blog, l'Unità d'Italia non risale affatto al 1861, anno in cui, giova ricordarlo, Roma non era ancora né italiana né Capitale del Regno (la Capitale era Torino) come non appartenevano all'Italia il Veneto, il Friuli, il Trentino e la Venezia Giulia (e definire unita una Italia senza Roma, Verona, Venezia, Udine, Treviso, Padova, Trento e Trieste mi sa di una bella forzatura), ma addirittura il Sudtyrol (chiamato poi a spregio, in italiano: Alto Adige), entrò a far parte dell'Italia solamente nel 1919 e, è bene ricordarlo, non per libera scelta bensì a seguito di una annessione territoriale susseguente ad una guerra vinta (senza grande merito).
Ma, a parte l'italianità dei sudtirolesi, che vengono riconosciuti come fratelli solo in occasione delle medaglie che questi vincono per i nostri colori alle varie Olimpiadi (e non solo invernali), è tutta la faccenda che puzza d'imbroglio lontano un miglio e siccome il Biri sente puzza di bruciato voglio dirvi perché questo subitaneo rigurgito di patriottismo mi lascia perplesso.
Ma insomma: un pò di dignità. Saranno passati si e no cinque anni da quando il popolo di Sinistra ostentava coccarde e sciarpe multicolori in ogni occasione, la parola d'ordine era "Internazionalismo contro tutti i nazionalismi" e le Bandiere Arcobaleno (chiamate chissà perché "della Pace") facevano baldanzosa mostra di sé persino nelle facciate degli edifici pubblici e sui tetti dei monumenti storici, un gadget demenziale, senza un significato certo e senza storia che gli ex-comunisti avevano copiato da altri e che era stato adottato senza alcun ripensamento proprio in opposizione al tricolore nazionale, considerato, questo, "di destra".
Addirittura nelle contrapposizioni politiche, per riconoscersi, quelli di sinistra inalberavano bandiere rosse e arcobaleno mentre gli altri (subito battezzati "fascisti") ostentavano la bandiera nazionale.
Ricordo a chi volesse scordarselo che il simbolo del P.C.I. era una enorme bandiera rossa che copriva (non lasciandone che un minimo bordo) un'altra bandiera bianco-rossa-verde e che comunque tutta la propaganda di sinistra denunciava e condannava in ogni occasione il deteriore attaccamento ai colori nazionali e a tutto quello che richiamasse, anche da lontano, il concetto "deteriore" di Patria o dimostrasse anche solo simpatia, (figuriamoci orgoglio!), per il sentimento nazionale.
Poi, sull'onda e sul timore dei successi leghisti e paurosi della possibilità di un sempre più spinto federalismo (che, a parte certe considerazioni, vorrebbe dire meno soldi da gestire da parte di chi finora li ha amministrati nel nome e per conto di altri) ecco la conversione ad U: una curva a 180 gradi così spericolata che nemmeno Alonzo ci si arrischierebbe a provarla a simili velocità; le nuove parole d'ordine della Sinistra, benedette da Napolitano e sponsorizzate da tutti i giornali progressisti sono istantaneamente diventate: Patriottismo, Risorgimento e Amor di Patria. Gli attivisti della CGIL (quelli che una volta sventolavano il libretto rosso di Mao) ora alzano trionfanti al cielo la bandiera dei Tre Colori e gli occhi dei proletari si fanno rossi di commozione e non riescono a trattenere una lagrima pensando alle fulgide gesta dei Padri della Patria. Italia, Italia! risuona nelle Case del Popolo e in tutti i Circoli Arci, tolti in fretta e furia i ritratti di Engels e Marx, si appendono alle pareti le gloriose stampe (anche se un pò sbiadite) di Garibaldi, Nazario Sauro e Nino Bixio!
Ma a dimostrazione che allo sprezzo del ridicolo non c'è mai fine, ecco la sceneggiata rappresentata sul massimo palcoscenico mediatico nazional-popolare da quell'icona della Sinistra (macché sinistra!: del Comunismo puro e duro! Chi non ricorda i suoi abbracci a Berlinguer (al quale dedicò anche un film) ed i suoi esilaranti monologhi alle Feste dell'Unità infarciti di battute corrosive su tutti coloro che avevano la sfortuna di militare nel Centrodestra); il Vate della Sinistra, il Grande Artista (proprio così è stato definito: Grande Artista) Roberto Benigni da Vergaio (Prato).
Il Roberto nazionale, annusato il cambiamento di clima e forte del successo tanto planetario quanto immeritato piovutogli addosso dopo le declamazioni della Divina Commedia (della Divina Commedia! di Dante! Benigni!!) ha pensato bene di ammannire a tutta Italia una Letio Magistralis nientepopodimeno che su quel popò di poema che va sotto il nome di "Fratelli d'Italia" (detto anche "Inno di Mameli" dal paroliere che, presumibilmente, lo compose).
Ebbene, in un delirio logorroico tanto inaspettato quanto oggettivamente fuori posto (parlando di tanto componimento poetico) il Benigni, rosso dall'emozione e spinto dalla foga patriottica si è lanciato in una sequela talmente incredibile, inattendibile e sciatta che, più per la boiata meritava forse il premio per il kitsch letterario dell'anno. 
Il Benigni pensiero si è estrinsecato in un insieme di fatti che, più che storici, sembravano tratti pari pari dal "Piccolo Balilla"; ha illustrato certe sottigliezze della rima mameliana come si potrebbero spiegare ai bambini delle elementari e, in un crescendo patriottico inaspettato e insospettabile da tutti quelli che lo conoscevano in versione universalistica, si è sbilanciato corpo ed anima in una dimostrazione di fede nazionalista che nemmeno D'Annunzio prima del volo su Vienna, nemmeno De Amicis, nemmeno tutte le Camicie Rosse tutte insieme, sarebbero stati in grado di immaginare, elaborare e proporre.
Le bellezze d'Italia sono state esaltate con aggettivi onestamente difficili persino a riportare (pena cadere nella comicità involontaria); la parola "Memorabile" è stata pronunciata decine di volte, la grandezza di Mazzini, Garibaldi e di tutta la Giovane Italia è stata portata ad altezze che nemmeno un fondamentalista risorgimentale dei primi del secolo scorso,  si sarebbe sognato di poter fare.
Dopo una quarantina e passa di minuti, trascorsi a farci balenare davanti agli occhi della mente: la bella Rosin, i Mille, la battaglia di Custoza, Cavour, i carbonari ed il Re Galantuomo, stanco e sudato, finalmente a corto di immagini eroiche e di gossip risorgimentali (la maggior parte dei quali o inattendibili o falsi), il Robertone, sazio di retorica ha salutato ed è uscito dal palco di Sanremo inseguito da battimani esagerati, applausi interminabili e standing ovations da parte di tutti i presenti e, credo, persino da chi ha seguito, allibito ma coinvolto, la performance da casa.
Ho pensato a lungo a quella penosa esibizione (e altrettanto penose sono state tutte recensioni superentusiaste che hanno commentato il pompieristico monologo) speculando, con il pensiero, su quanto caduche siano le certezze umane. Benigni patriota? Bersani e Di Pietro risorgimentalisti? Tutta la Sinistra nazionalista?
Che cavolo stava succedendo? Poi ho realizzato la verità e ho finalmente compreso la vera grandezza di Benigni. Come non ci avevo pensato fin dall'inizio? Come avevo potuto pensare ad un giro di valzer così drastico come quello che sembrava aver compiuto il comico toscano?
Invecchio, lo so. Sono lento (o duro) di comprendonio. Ma poco alla volta ci sono arrivato.
Lo show di Benigni non era stato altro che una macchietta, una satira (lui che della satira è un maestro) per mettere alla berlina i nazionalisti, i patrioti, i fautori dell'Italia Uber Alles. Vedete? Ci ha detto Roberto; così fanno i fascisti. Queste sono le parole che usano quelli di destra. Ora che lo avete visto sapete come riconoscerli. Satira era; una imitazione; una gogna mediatica per quelli di destra messi così ingloriosamente alla berlina! Diabolico Benigni! Grande popolo della Sinistra!  E io che all'inizio avevo pensato che amassero veramente l'Italia!

VIVA V.E.R.D.I. !!

mercoledì 16 febbraio 2011

Pare allora che il 17 Marzo ci saranno le celebrazioni per il 150° Anniversario dell’Unità d’Italia.
Gli storici hanno indicato tale data perché, nel marzo del 1861 fu istituito il Regno d’Italia gettando così le basi per l’Unità del nostro Paese e il nostro Presidente non lascia passar giorno senza chiedere a tutti uno sforzo coeso e partecipato affinché tali celebrazioni siano solenni e condivise come l’importante avvenimento merita.
Dico la verità: non mi sento enormemente preso dall’Evento e nemmeno tanto commosso al pensiero di tanta ricorrenza.
A parte la stramberia dell’Anniversario (il Centocinquantesimo. E perché allora non il Centoventottesimo o il Duecentosedicesimo? Un anniversario importante si celebra a distanza di secoli interi e non dimezzati) la data scelta è anche falsa, stirata e per qualcuno persino offensiva.
Occorre ricordare che nel 1861 Roma non faceva ancora parte del Regno; inoltre non era italiano l’intero Veneto e tutte le sue città tra le quali Udine, Verona e Treviso; insieme a Venezia esse furono annesse solo nel 1866 mentre Trieste e Trento divennero italiane solo nel secolo successivo. E comunque, mentre le popolazioni di queste città, di storia e cultura italiane, decisero di far parte dell’Italia con plebisciti o dichiarazioni condivise, assai diverso fu il caso del Sudtyrol e del suo capoluogo Bozen (in italiano Bolzano), terre austriache da secoli.
Queste popolazioni non “scelsero” mai di essere italiane, ma furono annesse all’Italia come conseguenza delle trattative di pace che posero fine alla Prima Guerra Mondiale e all’Impero asburgico.
Insomma, la storia dell’Unità italiana nel 1861 è tutta una fandonia come è fuorviante la polemica su chi “deve” o non deve celebrare questo evento, importante ma fasullo. Certo non gli altoatesini che sono stati fatti diventare italiani loro malgrado; ma come ci si può aspettare che siano ansiosi di celebrare un Anniversario che non solo non li riguarda, ma che, al contrario, celebra proprio la parte che ha tolto loro la propria secolare identità nazionale!
E, per quanto riguarda gli altri “italiani”, beh, non approfondiamo la questione dei brogli che accompagnarono quasi ovunque i cosidetti plebisciti per le annessioni al Regno e stendiamo un velo pietoso sulla repressione sanguinosa dei cosidetti “briganti” meridionali (in realtà combattenti popolari che combattevano contro l’annessione delle loro terre al Regno d’Italia).
Ma passiamo oltre. Unità vuol anche dire Indipendenza. E cosa mai resta a noi, ma anche a molte delle altre nazioni europee, della sgarrupata indipendenza nazionale (quella per la quale sono morti i nostri bisnonni), oggi, quando le decisioni più importanti per l’Italia in temi quali etica, politica estera ed economia vengono prese altrove, dove due “italiani” su 10 (per adesso) sono nati in altri Paesi, dove quasi ogni pilastro della nostra identità storica e culturale (il cemento del nostro sentirci italiani) come la Famiglia, la Religione, la Morale, il Diritto, la Storia, il Riconoscimento dell’Autorità e via dicendo, non solo viene messo sempre più in discussione, ma anche vilipeso, bistrattato, ignorato, avversato.
Si dirà che queste sono idee di Destra. I Progressisti Illuminati diranno che sono addirittura idee “fasciste”. Come no! Poveri i miei polli!
Che proprio oggi (e solo per lo stretto tempo necessario ai Festeggiamenti Epocali) riscoprono l’ebbrezza del patriottismo, e godono della voluttà di un nazionalismo che da sempre e per sempre, fino ad ora, hanno cercato in ogni occasione di mettere in ridicolo e di combattere. Ora, in ossequio ai “desiderata” del Presidente della Repubblica  e vogliosi di prendersi una rivincita sulla Lega, anche i… “comunisti” (scusate, io sono all’antica e li chiamo così piuttosto che Democratici, Popolo Viola, Antagonisti, Alternativi Combattenti e Anarchici Rivoluzionari che dir si voglia) scoprono l’Amor di Patria! Vedo già corone d’alloro (con nastro rosso) portate dai giovani dei Centri Sociali ai cippi commemorativi di Nazario Sauro; commossi discorsi di sindacalisti ciggiellini ricordare epiche gesta davanti ai busti degli Eroi del Risorgimento; Bersani e Veltroni rievocheranno le imprese di Cesare Battisti (l’Eroe, non l’Altro, per adesso); lagrime di commozione sorgeranno dalle ciglia di Rosy Bindi e di Nicky Vendola all’udire le gesta dell’Eroe dei Due Mondi; girotondi vertiginosi ed adoranti saranno organizzati da Moretti (l’eternamente promettente giovane regista) sui sagrati dei Monumenti ai Padri della Patria, mentre Benigni, con la faccia di circostanza come quando cerca di darci ad intendere di commentare Dante, rinvigorirà gli spiriti più democratici del Paese declamando nel suo toscanaccio proletario le “Lettere dal carcere” di Silvio Pellico!
Come restare impassibili davanti al furor sacro di tanto sincero Amor di Patria! Alle armi, Alle armi! incitano gli eroici progressisti (nonché solidali, antimperialisti, tollerantissimi e, soprattutto, antiberlusconisti); Alle armi! gridano certe sgallettate femministe d’antan offrendo il nudo petto, celato dietro al sacro tricolore, agli strali arcoriani; alle armi! propugnano i coraggiosissimi Magistrati di mille procure che ricordano agli smemorati: c’è ancora un Nemico da cacciare dall’Italia! E fino ad allora, dimenticate in fretta (ma per poco) certe imbarazzanti parole d’ordine che indicavano al pubblico ludibrio chi evocava concetti come Patria, Risorgimento e Tricolore, possiamo anche far finta di dimenticare chi siamoe da dove veniamo e sentirci, oltre che casti, moralisti e puritani come novelli quacqueri, tutti Italiani dalle Alpi al Lilibeo, tutti pronti ad offrire il sangue per la terra natìa, tutti Patrioti!
Io festeggerò a modo mio. Non andrò in piazza, non comprerò i giornali, non accenderò la TV. Forse farò una gita, chissà; forse in montagna. Dalle parti di Bolzano.

Codici

domenica 13 febbraio 2011

Dario tardava a telefonare. Erano già le sette e non sapevo ancora se la prenotazione per la solita cena in pizzeria, era stata fatta ed accettata.
Gli accordi erano che lui (Dario) avrebbe telefonato a Guido (il gestore della pizzeria) per sentire se eravamo in tempo per prenotare un tavolo per quella stessa sera (giovedì) alle 8; se non fosse stato possibile allora avremmo prenotato per sabato prossimo.
Alle sette e mezzo il mio cellulare ha intonato la Missa Solemnis di Bach (ognuno può avere la suoneria che vuole, o no?): era lui.
“Un’ora sono o non sono sessanta minuti?” gli ho fatto (sottintendendo: “L’hai prenotato il tavolo per stasera?”.
“Forse ma la nonna non vuol cantare.” ha risposto lui (volendo dire: “Non proprio. C’è un problema”).
“Il latte è bollito o è traboccato?” ho chiesto (come a dire: “Spiègati: di che si tratta?”).
“Quaglia, ma dopo un giro.” Ho capito. Voleva dire che per le 8 non  era possibile. Poteva però riservarci un tavolo per le 9.
Ho fatto un rapido calcolo. Alle 9 era troppo tardi. Meglio rinunciare e fissare direttamente per sabato.
“Non c’è brezza, stasera” gli ho comunicato.
“Amen” ha detto lui per farmi capire che aveva capito. Ho chiuso la conversazione e sono passato nel tinello.
“Ma come diavolo parlate al telefono?” mi ha detto poi mia moglie. “E come fate ad intendervi, te e Dario? Io non ci capirei una parola”.
“Davvero? Bene, bene. Va bene così” ho risposto. Mi sono fregato le mani, tutto contento.
“Ma insomma mi vuoi spiegare perché alla vostra età continuate a fare i ragazzini? Che sono questi sotterfugi, questo parlare da scemi, queste parole che non significano niente?” ha chiesto, decisa a saperne di più.
“Cara, non arrabbiarti” le ho spiegato a voce bassissima. “Tutto nasce da quando abbiamo capito, io e Dario, che potremmo non essere soli. Voglio dire quando vorremmo essere soli o meglio quando crederemmo di essere soli. Che so? Quando ci si telefona, per esempio. Quando si cammina per la strada, quando si clicca su Google, quando si manda un messaggio, quando si consulta il navigatore.. insomma in tutte le occasioni in cui non ci aspetteremmo che altri ci possano pedinare, o frugare nella nostra posta, origliare alle nostre porte, o ascoltare e registrare le nostre parole interessandosi morbosamente a quello che diciamo. Ebbene, ho saputo che, per dirne una ma solo una, quando due si telefonano, spesso c’è una persona che parla e due che ascoltano. E anche più di due. E a me non va, e non va nemmeno a Dario. Già mi dà noia che mi riprendano per la strada, o quando entro in un negozio o se vado in banca o prendo un treno. Non mi va che tutti i miei movimenti vengano scrutati, esaminati di nascosto, interpretati e giudicati da parte di gente che non conosco e che comunque non mi ha chiesto il permesso di spiarmi. E allora, noi ci comportiamo come si fosse in un grande campo di concentramento; democratico ovviamente, garantista alla massima potenza, ma comunque stranamente simile a quelli in uso nella vecchia e gloriosa DDR. Per opporsi a questi comportamenti noi abbiamo inventato un codice per parlare senza farci capire dagli altri. Certamente è faticoso e probabilmente inefficace, ma cerchiamo di trattare questi spioni importuni per quello che sono: pazzi pericolosi, malati paranoici che cercano di incastrare le persone per bene. Ah, a proposito: sabato si va a mangiare una pizza con Dario e sua moglie”.
Sono passati cinque secondi.
“Mi aggrappo e ti accudisco” ha fatto poi mia moglie, a voce alta.
Lì per lì non ho capito ma poi, tiratomi dietro un angolo mi ha detto sottovoce che quelle parole volevano dire “Ti capisco e sono d’accordo”. Perché ormai non si può sapere dove stanno le spie; forse anche nel tinello di casa tua.

L'altra campana

mercoledì 9 febbraio 2011

Non ditelo in giro ma per quasi due settimane ogni giorno ho comprato la Repubblica; non chiedetemi il perché (nemmeno io me lo chiedo): non lo so.
Forse per spirito di sacrificio o è stato forse per sprezzo del pericolo (o del ridicolo) o semplicemente per mettermi alla prova, fatto sta che, puntuale come il caffè del mattino, la prima cosa che ho fatto da quindici giorni appena uscito di casa è stata quella di andare dal giornalaio e, quando quello mi si rivolgeva con aria interrogativa, ordinare (a voce medio alta e guardandomi intorno, come si usa tra i republicones più scafati): “La Repubblica”!
Beh, devo dire che l’esperienza è stata notevole. Innanzitutto non è stato necessario aspettare due minuti buoni come di solito succedeva quando acquistavo il mio solito quotidiano, piccolo, off ground e colpevolmente presente nella lista nera delle pubblicazioni politically uncorrected (e il giornalaio, quando si degnava di volgersi finalmente dalla  mia parte non mancava mai di richiedermene il titolo, per esser sicuro di aver capito bene); beh, niente di tutto questo. “La Repubblica!” e, oplà, un solo veloce movimento e, per un misero euro e venti, ecco un fascicolone tosto, importante, deterrente e discretamente pesante che passava nelle mie mani. Un giornale vero, insomma, influente e, dicono, prestigioso.
E che, se pur l’abito non fa il monaco, almeno il giornale fa il buon democratico, ecologico, progressista, solidale, tollerante e, soprattutto, “colto”, l’ho potuto verificare da subito, fin dalla prima mattina, quando, con il giornale “giusto” ancora fresco d’inchiostro, sono andato al bar a prendere il solito caffè, e poi dal barbiere, ed infine a passeggio per il Corso, con gli amici.
Una goduria. Tutti a lanciarmi dei sorrisini, tutti a cercarmi per far conversazione, pronti a perdonarmi anche qualche salace commento di quelli che mi contraddistinguono (dicono), tanto, la Repubblica era lì, nella mia mano, pronta a testimoniare per me che, se pur certe mie affermazioni potevano sembrare stonate o fuori luogo, la mia democraticità era fuor di discussione, la mia fede nell'imparzialità delle Procure adamantina, il mio antiberlusconismo inossidabile. Il problema era semmai dove tenerlo, quel giornale, dato che, come ogni antiimperialista sa, si parla di un fascicolone di decine e decine di pagine (e di diversi etti di peso) che non si riesce a piegare  a modo per farlo entrare, come gli altri quotidiani meno progressisti ma più pratici, nella tasca della giacca. A dir la verità il primo giorno ci sono riuscito (con qualche sforzo) ad arrotolarlo e poi a ficcarlo in tasca, ma la povera giacca, che evidentemente non era stata approntata per tale prova, ha subito cominciato a pendere sulla sinistra (la parte dove, appropriatamente, c’era la tasca col giornale) facendomi sembrare uno sciancato, e la tasca si è slabbrata tanto che sono stato costretto a mentire a mia moglie (ché mai avrebbe creduto che un giornale, fosse pure la Repubblica, potesse fare tanto danno) raccontandole di averci messo incautamente un chilo di caldarroste comprate per riscaldarmi un po’ in quella fredda giornata invernale.
Dal secondo giorno mi sono attrezzato. Sono uscito con una borsa di plastica (biodegradabile, giuro!) dicendo che sarebbe potuta servire caso mai avessi trovato da fare spesa al mercato e sono andato alla solita edicola. Quando ho chiesto la Repubblica e l’ho messa nella borsa come fosse uno sfilatino o un cavolfiore, il giornalaio non mi è sembrato sorpreso.
E’ andata avanti così fino a ieri, quando, inaspettatamente, insieme al giornale scalfariano l’edicolante mi ha dato anche il Venerdì! Un supplementone grosso, grasso, a colori, pesantissimo! Ho provato a chiedere se potevo lasciarlo lì, all’edicola, ma il giornalaio, probabilmente avvezzo a tali richieste mi ha subito dissuaso dall’idea convincendomi con una certa aria minacciosa a prendere il grazioso omaggio (sì, il supplemento) e a sgombrare.
Beh, la Repubblica e il Venerdì tutti in una volta sono una dose di cultura troppo forte per le mie forze. Così dopo aver tentato invano di “dimenticare” il supplemento repubblichino al bar (e il barista mi ha sputtanato gridando a voce altissima mentre cercavo quatto quatto di svignarmela: “Signore! Ha dimenticato il suo supplemento!”), di regalarlo ad un barbone (che ha rifiutato il dono con gesti osceni ed oscure minacce) e di gettarlo nel cestino dei rifiuti (non c’entrava!) mi sono diretto alla stazione degli autobus e, con la scusa di un improvviso bisogno, sono andato velocemente e senza dare nell’occhio, in fondo al grande hangar dove parcheggiano i bus. Lì, scesa una rampa di scalini, ho aperto una porta e sono entrato nel vecchio gabinetto della stazione, ormai pochissimo usato perché sostituito da uno più moderno. Sopra la porta, sbiadita, si leggeva ancora la vecchia iscrizione: Latrina.
Lo lascerò qui” ho detto fra me e me, contento di aver avuto quella bell’idea. “Ci lascerò anche la Repubblica” ho pensato fregandomi mentalmente le mani (sicuro che due settimane di acquisti di quel quotidiano avessero ormai rafforzato abbastanza la mia fede democratica, solidale e progressista). Beh, non ci crederete: quasi non mi è stato possibile.
Quel vecchio gabinetto, lungi dall’essere abbandonato, era strapieno di giornali; copie a non finire di Repubblica e di Venerdì che lastricavano il pavimento, riempivano ogni angolo, traboccavano dai cestini dei rifiuti e formavano pile altissime tutto intorno alla vecchia tazza del WC che sarebbe stata un’impresa anche solo espletare le necessità fisiologiche per cui, tali generi di luoghi, sono frequentati. Da una parte, nell’angolo più lontano della maleodorante stanza, abbandonati e quasi nascosti dietro la scopetta per il water, c’erano diversi DVD abbandonati. Ho provato a leggere un titolo: Benigni legge Dante, e in piccolo: Edizioni Repubblica. Come non solidarizzare con gli anonimi abbandonatori; Benigni che commenta Dante è roba da testate nel muro a ripetizione!
Ho gettato i giornali nell’angolo più lontano e, guardandomi intorno con circospezione, me ne sono tornato a casa più leggero (in tanti sensi). L’esperienza dei miei acquisti de la Repubblica è così terminata. Non è stata male; bisogna infatti sentire tutte le campane, si dice, anche quelle più bècere e incattivite: serve a farsi un’idea, a conoscere le varie opinioni. Ma a me non è servito a niente; io la Repubblica la compravo sì, ma mica la leggevo!


Biri.


C'è Miss e Miss

martedì 1 febbraio 2011

Da tempo la Lega Nord di Pisa,  minuscola propaggine della formazione politica presente in forma massiccia nell’Italia Settentrionale, aveva programmato a San Miniato, ridente cittadina posta quasi a metà strada tra Pisa e Firenze, una manifestazione centrata sull’elezione della Miss Padania provinciale.
Sia chiaro, l’unica cosa di padano che c’è in toscana (a cercar bene) è il grana (anche perché costa meno del parmigiano); per il resto noi toscani siamo e restiamo orgogliosamente autoctoni, autosufficienti e autoreferenti. Non ci piacciono le novità e diffidiamo da chi viene a proporci da chissà dove (e chissà perché) manifestazioni che puzzano lontano un miglio di propaganda occulta (nemmeno troppo).
Però: c’è un però.
L’elezione della Miss Padania sanminiatese era libera. Libera nel senso che erano libere le ragazze di parteciparvi, liberi gli spettatori di andarci, liberi gli sponsor di aderirci. Era autorizzata dal Comune e dalle varie Autorità che di solito vengono interpellate in casi come questi. La manifestazione aveva inoltre una data certa, un orario prestabilito e un luogo deputato: insomma non c’era niente di illegittimo, niente di eversivo, niente di peccaminoso, niente di costrittivo, niente di niente che non fosse un semplice e forse ingenuo, concorso di bellezza come quelli che si organizzano da anni, e senza scandalizzare nessuno (almeno in modo visibile) in ogni Casa Culturale, o Casa del Popolo, o Circolo Arci, o Festival dell’Unità (che Dio li abbia in gloria, quei tempi!) che dir si voglia.
C’è anche da ricordare che la Lega Nord, organizzatrice dell’evento, è una forza politica democratica, radicata da tempo in gran parte del territorio nazionale, e presente (nemmeno in piccola parte) nei due rami del Parlamento della Repubblica.
Sembrerebbe, detto così, tutto assai facile, normale e condivisibile: le autorizzazioni c’erano e c’erano anche le ragazze partecipanti; ragazze normali, di queste parti, per nulla diverse da quelle che partecipano alle stesse competizioni di bellezza che vengono organizzate in ogni occasione dai partiti dichiaratamente e orgogliosamente Democratici (nonché Tolleranti, Pacifisti e, ovviamente, Antirazzisti).
Con queste premesse pensavo che le alternative che si presentassero ad una persona normale messa di fronte a cotanto fatto (l’elezione della Miss leghista) fossero due; una morale: approvarla o disapprovarla, e una fisica: andarci o non andarci.
E invece no: ho imparato (e ne avevo evidentemente bisogno), che il mio atteggiamento rispetto a quella manifestazione (e cioè: fregarmene) era, a dir poco, antidemocratico e razzista; che ci sono concorsi e concorsi, elezioni e elezioni, ragazze e ragazze e anche miss e miss, e quello che avevo scambiato ingenuamente per un concorso di bellezza era nientepopodimeno che “una provocazione”.
Ecco quindi giustificatissima e sacrosanta la manifestazione antirazzista, antifascista, policulturale, multietnica e antiimperialista (nonché equa-e-solidale) con la quale un discreto numero di ferventi democratici ha manifestato contro le giovani debuttanti e i loro organizzatori riuscendo, coraggiosamente e con sprezzo del pericolo, a rovinare la manifestazione “razzista” (almeno così è stata definita con una plateale - e indelebile - scritta su un muro). I sedicenti padani, che con sprezzo del pericolo, pensavano di potersela giocare da pari a pari con coloro che hanno idee diverse dalle loro, hanno risalito in fretta e furia le valli dalle quali erano scesi alla volta della Rocca di Federico con orgogliosa sicurezza.
Dopo breve schermaglia verbale, la Democrazia ha trionfato ancora una volta, e da oggi le rosse bandiere della Tolleranza e della Solidarietà possono sventolare di nuovo, indomite, progressiste e rassicuranti con il loro messaggio proletario e rivoluzionario: Miss Padania, da qui, non passerà!.