Dopo aver pranzato, ogni giorno, esco a fare una passeggiata. Di regola sto fuori un'oretta o poco più, e vago senza una meta, con un certo passo corto e lesto che mi illudo possa aiutarmi a digerire meglio, spesso con la macchina fotografica a portata di mano caso mai capitasse qualcosa di insolito (o memorabile) da immortalare.
Da un paio di anni però le mie uscite pomeridiane sono cambiate; non è che durino di meno o che le svolga ad un passo più blando: sono cambiate perché il loro scopo è cambiato. Per esser chiaro: non esco più, come prima, per digerire o per fare del moto salutare; esco per onorare un appuntamento. Direte (maliziosi): e con chi ce l'avresti 'sto appuntamento, sentiamo un pò? Un pochino di pazienza, amici e arrivo subito a svelarvi il mistero (posto che si tratti di un mistero). Dunque: tutto cominciò un caldo pomeriggio d'estate, due anni fa.
Quel giorno decisi (senza un motivo preciso, mi par di ricordare) di cambiare itinerario e, desideroso di silenzio e di pace, pensai di andare a fare una visita al cimitero comunale. Al cimitero, in effetti, non ci si va quasi mai e quando ci capita o è per l'annuale ricorrenza dei Defunti o per ricordare, con un triste commiato, un conoscente o una persona cara. C'è poi un'altra occasione in cui (tutti) andremo a far visita al cimitero, ma, benché certa e, per quanto risieda nella nostra volontà, improcrastinabile e di durata assai più lunga della nostra stessa vita, si tratta a nostro avviso di un evento che consideriamo (da vivi) lontano, nebuloso, misterioso e così impalpabile che non lo riteniamo degno di catturare la nostra attenzione per un tempo che superi quello di un angoscioso brivido, inspiegabile, improvviso e deterrente al punto di impedirci di proseguire oltre in quel tale ragionamento.
Il pomeriggio era caldo e la strada assolata e deserta; passai dal portone che introduce al cimitero quasi con sollievo, pensando che avrei potuto godere del refrigerio che pervade i corridoi laterali del grande atrio. Traversai il piazzale, entrai sotto l'arco che introduce ai portici con le cappelle mortuarie e cominciai a percorrerlo. Passando osservavo le cappelle con i monumenti funebri e le tombe dei defunti; mi impegnai a cercar di memorizzare i nomi più strani ed insoliti. Un'altra occupazione che trovai (non avevo niente di meglio da fare) era quella (ricordo) di annotare mentalmente le date di nascita e di morte per calcolare l'età del trapassato. Passavo il tempo senza annoiarmi, così, dopo aver visitato le cappelle sotto i portici, scesi nei sotterranei e poi di nuovo all'aperto, traversando i campi pieni di lapidi e di croci, salendo e scendendo per le colline piene di sepolcri, errando tra i morti, ancora osservandone i nomi, a casaccio, ancora a calcolarne l'età del decesso.
Beh, pensai, ce n'erano di nomi strani, specie tra le donne: Eurasia, Elpidia, Bea, Urania, Idomenea, Scilla.. e chissà quanti altri dei quali non mi ricordavo.. E le età? Quasi tutti erano morti tra i settanta e gli ottant'anni anche se c'erano rassicuranti vegliardi che avevano dato l'addio alla vita terrena oltre i novant'anni. Avevo trovato anche qualche centenario e, bellissima notizia (tale la considerai, chissà perché poi...), non avevo trovato nessuna tomba che portasse il mio mese e giorno di nascita.
Erano quasi due ore che, come un maniaco (o un cretino), vagavo tra le tombe e, poiché mi sentivo un pò stanco mi sedetti su un'opportuna panchina che mi aspettava proprio là, al bordo del vialetto che divideva le sezioni del cimitero, all'ombra, pronta per me.
Mi sedetti, respirai profondamente, mi guardai intorno... dove mi trovavo? Perché ero in quel posto? Cosa mi aveva condotto lì? Da ogni parte croci, angeli, fiori, marmi.. l'orizzonte non era che una sequela di cappelle dalle forme più varie e fantasiose interrotta dall'alta struttura in mattoni della chiesa del camposanto e dalla bassa cornice circolare dei due porticati; in alto, lente e impassibili, scorrevano alcune nuvole svagate.
All'improvviso e senza nessuna giustificazione i miei pensieri presero una direzione inaspettata; mi trovai a trattenere il respiro, a tendere le orecchie, a cercar di allontanare da me i lontani rumori che provenivano dalla città. Dovevo pensare. Qualcosa di luccicante mi era passata accanto, qualcosa di incredibilmente sconvolgente mi costringeva (con soddisfazione, con gioia!) a non abbassare la guardia, a cercar di trattenere quel palpito di ragionamento che per un attimo aveva scossa l'indolente apatia di quella giornata calda e noiosa.
Mi concentrai; feci appello a tutte le forze ineffabili della mia memoria. Avevo pensato: questa gente mi guarda, mi osserva, mi giudica, mi chiama. E anche: sono qui, fra i non-vivi, sono qui fra gli immortali.
La mente ora prese il largo. Sentivo di essere prossimo a qualcosa, ad un ragionamento antico ma misterioso. Pensai: tutti questi defunti sono in attesa di qualcosa. E la parola nacque spontanea dallo stesso ragionare. Resurrezione.
E vidi con chiarezza disarmante, ed esaustiva che la nostra natura stessa è quella di una comunità in attesa di un Evento, e che l'Evento è talmente certo che ignorarlo o negarlo sarebbe una specie di provocazione così insincera e sprovveduta che solo la malafede avrebbe potuto ispirarla.
L'Uomo tende all'immortalità, pensai. Riflettei che: "Se non pensassimo di essere in qualche modo immortali non varrebbe nemmeno la pena di vivere". E vidi i milioni di trapassati che, a partire dalla preistoria, prima di pensare a lasciar testimonianze storiche o artistiche o civili, si erano preoccupati a costruirsi una casa per l'Aldilà. Le prime testimonianze di una civiltà sono i segni della fiducia sulla rinascita da quella che chiamiamo impropriamente Morte. E che siano Piramidi (Egiziane o Atzeche), Necropoli, Catacombe, tumuli o sepolcri di ogni forma e dimensione, famosi e celebrati o senza nome e senza tempo, ognuno di quei manufatti, fin da quando l'Uomo ha dato segni di sé in ogni terra, in ogni età e in ogni cultura, spiega e dimostra, meglio di qualunque speculazione pseudoscientifica o "verità" agnostica, come la fede nella risurrezione sia innegabilmente inglobata nel nostro stesso essere. Fa parte di noi, "è" noi, ci distingue dagli altri esseri viventi, è evidente e tangibile e negarla è un atto inutile, anzi, più che inutile: criminale (perché nega la vita, quella futura).
Tutti i miliardi di uomini e donne che in ogni epoca hanno vissuto la loro travagliata vita terrena, giacciono ora (pensavo) qui, intorno a me e in ogni altra parte del mondo, immobili, pazienti, fiduciosi; gli occhi chiusi volti in alto trascorrono la loro esperienza di non-vivi nell'attesa della risurrezione. E del Giudizio.
Se l'intero genere umano, fin dalla propria venuta sulla terra, ha sempre ipotizzato (in mille modi e con mille giustificazioni diverse) la vita al di là della morte, vuol dire che questa non è una semplice credenza, non è una eventualità di poco conto da liquidare come una speculazione filosofica sconfinante nell'esoterismo. Significa che la vita al di là della morte fisica può esistere. E quindi ESISTE. E' possibile, è a portata di mano. E' talmente possibile che un Uomo l'ha sperimentata e ci chiede continuamente (poiché vive e opera accanto a noi) di credere a quello che abbiamo visto e sentito; di non chiudere gli occhi e di non tapparsi le orecchie. Non siamo noi a non voler vedere e a non voler sentire; non siamo noi a non voler credere in Lui (e quindi nell'immortalità). E' l'Altro, il Principe del male che regna in quel mondo in cui siamo stati esiliati per espiare una colpa immane; è lui che ci chiede di non vedere ciò che splende e di non sentire ciò che grida.
Io non credo che a ciò che vedo e a ciò che sento; ecco perché credo in un Dio che ci ama e in Gesù Cristo, suo Figlio, che è venuto sulla Terra a morire e a risorgere per aprirci le porte dell'immortalità.
Pensavo questo e molto più di questo e per la prima volta vedevo chiaramente ciò che fino ad ora (intuendolo) tenevo pervicacemente nascosto, quasi vergognandomene. I non-vivi, tutt'intorno a me, annuivano; e certo non in silenzio. "Hai capito anche tu, finalmente" dicevano e le loro parole formavano quasi un brusìo vegetale (no, non era il vento che faceva vibrare i cipressi) che era una brezza corroborante per l'anima.
I non-vivi mi hanno insegnato che non si può morire veramente: le porte di una eternità inimmaginabile si aprono dietro la spinta (dolce, ma decisa) di una sublime certezza.
"Se Dio mi ha dato i sensi per sperimentare il mondo intorno a me, ed una mente in grado di elaborare tutte le informazioni che mi giungono da ogni dove perché devo autolimitarmi riducendomi a negare l'unica verità inconfutabile che determina il futuro dell'intero genere umano?" riflettevo.
Da quel giorno la mia passeggiata pomeridiana ha per meta il cimitero. I non-vivi hanno sempre qualcosa di interessante (per usare un aggettivo comune) da dirmi.
Le banalità, le lascio dire a chi non ha altro da raccontarmi.
Birituìt
L'ironia
La felicità
Le buone intenzioni
Consultazione
La verità.
Ma come si può definire la verità? Perché alcuni reputano vero un fatto (una dichiarazione, una confessione, una spiegazione, una ideologia, una ricostruzione storica, una teoria, una utopia) e altri no?
Perché si afferma che una cosa è vera? Se quello che ci dicono, o che scrivono, o che ci rappresentano, è conforme alla realtà dei fatti?
Bene; premesso che la Verità (quella assoluta, quella con la V maiuscola) non è di questo mondo, possiamo cercar di dare una definizione della verità (con la v minuscola) terrena.
Per me “Il tasso di verità che accordiamo ad un fatto che non sperimentiamo direttamente risulta dall’aderenza alle nostre aspettative culturali (apprese o sperimentate) dell’evidenza del fatto così come ci viene rappresentato”.
Parlando di tasso di verità (dato che la verità al 100 per 100 non esiste) ecco che siamo disposti a prendere una cosa per vera se la sua descrizione è più o meno conforme a ciò che, per la nostra formazione culturale, siamo disposti ad accettare.
Ma ecco che nascono subito i problemi; la descrizione del fatto ci è esposta da altri ed il nostro giudizio su quel fatto dipende dalla nostra cultura. Poiché un fatto può essere descritto in una miriade di modi (con omissioni, enfasi, punti di vista ideologici, alterazioni varie, mancanza di dati essenziali, ecc. ecc.) e da fonti interessate a provocare un certo tipo di reazione nel destinatario della descrizione del fatto stesso; poiché le formazioni culturali e le esperienze sono tante per ogni essere umano; e poiché possono esserci interessi nella rappresentazione di un fatto ecco che in pratica si può dire che:
a- la verità di ognuno non è che un atteggiamento personale indotto dall’esterno e che
b- la Verità accettata da tutti non può esistere.
A queste condizioni le basi su cui ci regoliamo per destinare ad altri la nostra fiducia, la nostra gratitudine, la nostra stima (e analogamente il nostro odio, il nostro disprezzo, la nostra sfiducia) dipendono quasi sempre non dai fatti (veri o non veri) in sé, ma da noi (come li giudichiamo) e da altri (come ce li propongono).
E allora perché ci danniamo l’anima a perorare certe posizioni, a professare certe ideologìe, a propagandare certezze, a fomentare odii, a concedere simpatie e a sposare tesi che domani, al cambiare di uno dei due termini in gioco (primo: fatti che modificano la nostra esperienza o le nostre conoscenze; secondo: nuovi o diversi mezzi per la presentazione del fatto in questione) possono rivelarsi come mal riposte?
Se il bene e il male, la giustizia e l’ingiustizia, la verità e la menzogna poggiano su basi così fragili come possiamo permetterci “responsabilmente” di giudicare un fatto, un avvenimento, una persona, e a volte un intero popolo, senza rischiare di prendere la posizione sbagliata?
Ecco che la mia posizione può essere, se non condivisa, almeno compresa:
Confessione (1)
I CLASSICI DEL CINEMA IN 3 BATTUTE
THE END
Il Difetto
I FALSI MAESTRI
La saggezza del Biri (3)
"Tutte le cose piacevoli della vita o sono illegali, o sono immorali, o fanno ingrassare"
Woodehouse
l'AFORISMA del mese
"Anche quando le leggi sono scritte, non dovrebbero mai rimanere immutate"
Quanti leggono il taccuino?
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Missione del blog
Ora, avuto il permesso di visionarlo, l'ho trovato per certi versi interessante (come tutto quello che concerne il Biri) e gli ho chiesto perché non lo pubblicasse in un blog. Impresa disperata: il Biri non sa usare nemmeno il telecomando del televisore, figuriamoci il computer! Impietosito ho deciso di aiutarlo e pertanto ecco qui il blog con le pagine del taccuino del Biri che potrete leggere e commentare ricordando sempre che il sottoscritto non si prende alcuna responsabilità del contenuto essendo il suo contributo solamente quello di una collaborazione tecnica e poco più.
Per saperne di più, leggere il post dal titolo: Ouverture.
R.M.
(*) L'Agenzia di Ascolto e Collaborazione Morale della quale parlerò appronditamente in un prossimo futuro su queste pagine.
Roberto Mulinacci
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